Quattro le ragioni principali per cui le lavoratrici e i lavoratori Rai sono in sciopero per l’intero turno di lunedì 23 settembre, su tutto il territorio nazionale. Dalle 10.30, appuntamento a Roma, davanti alla sede di viale Mazzini, per un presidio con i dipendenti e i cittadini, promosso da Slc Cgil. Il segretario generale della categoria, Riccardo Saccone, fa il punto sulla situazione attuale del servizio pubblico. 

I motivi dello sciopero sono molteplici, partiamo dal primo. L’estate scorsa il voto dei dipendenti ha bocciato l’ipotesi di rinnovo contrattuale. Facciamo il punto.
Si trattava essenzialmente di un’ipotesi di carattere economico per dare risposte immediate alle lavoratrici e ai lavoratori, soprattutto per quel che riguarda il tenore di vita. E devo dire che il 52 per cento ha giudicato - più che legittimamente - questo accordo insufficiente. Abbiamo preso questa decisione in maniera compatta con le altre quattro sigle sindacali, tranne Liber, che non aderisce allo sciopero. Siamo convinti che a questo punto il tema del rinnovo contrattuale non possa essere svincolato dalle sorti più generali dell’azienda, che non ha un contratto nazionale, ha un contratto aziendale. Le prospettive future dell’azienda sono direttamente collegate alle condizioni economiche. E oggi, in Rai, si respira un sentimento complessivo di isolamento. Si produce poco, si innova ancora di meno, si continua a dare le produzioni in appalto all’esterno. L’azienda vive costantemente con la paura delle compatibilità quotidiane.

A proposito di compatibilità, parliamo di quelle “politiche”. I tempi sono maturi per provare una volta per tutte a scardinare un meccanismo di lottizzazioni che non paralizza solo la governance, ma arriva a condizionare perfino le scelte artistiche relative al palinsesto?
È normale che un servizio pubblico debba intrattenere dei rapporti con le istituzioni. Ma il vulnus forte che ha introdotto la legge Renzi è stato lo spostamento del baricentro dal Parlamento all'esecutivo. Questi cicli politici velocissimi a cui assistiamo nel nostro Paese si ripercuotono sulla Rai, dove c’è un cda schizofrenico, che cambia continuamente colore, e questo non ha fatto che paralizzare la televisione pubblica. Oggi però abbiamo una grande occasione grazie al Media Freedom Act, che va proprio nella direzione di tutelare i servizi pubblici degli Stati membri Ue. La tv di Stato è una cosa, ed è propria degli Stati meno democratici. Ma il servizio pubblico è, e deve essere, tutt’altra cosa: un presidio di informazione sociale e culturale. Come Slc Cgil abbiamo salutato con favore l’annuncio della maggioranza di aprire un tavolo permanente di confronto sulla riforma dell’editoria. L’informazione nel nostro Paese non versa in buone condizioni. Pensiamo a forti concentrazioni come quella del gruppo Angelucci. Quindi è bene che si apra questo focus, ma non c’è tavolo sull’informazione che si possa aprire senza parlare di Rai, un’azienda oggi al collasso, abbandonata a se stessa.

A proposito di collasso, in Rai continua a esserci un divario incolmabile tra i compensi milionari degli ingaggi artistici e gli stipendi di lavoratrici e lavoratori. Senza dimenticare i tanti precari.
Sono convinto che per migliorare le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori si debba ristabilire il patto fra il Paese e la Rai. Parliamo di un servizio pubblico, un bene pubblico, ma se ne è perso il valore e il significato. Se facessimo un esperimento empirico, e chiedessimo a dieci persone a caso se sono contente di pagare il canone, non credo che reagirebbero molto positivamente alla domanda. Il problema da porsi è come siamo arrivati a questo punto, a questa sistematica demolizione di un bene pubblico. Il tema del divario salariale rispecchia quello più generale che riguarda tutti i settori produttivi. Ma, come dire, almeno stessimo parlando di star che partecipano a programmi innovativi, che fanno ascolti. Invece quest’azienda non sembra più nemmeno libera di creare, di inventare. Pensiamo al programma di Saviano, che è rimasto bloccato per un anno. Va in onda adesso che Matteo Messina Denaro è addirittura morto. Ma così un programma lo ammazzi.

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Tra le ragioni della mobilitazione c’è anche la paventata vendita delle quote di maggioranza di Ray Way. Perché questa eventualità vi preoccupa?
L’azienda ha la pretesa di attuare un piano industriale, come quello immaginato qualche mese fa, trasformandosi con 225 milioni in una digital media company. Viene da ridere, ma la cosa più triste e preoccupante è che per finanziare il piano industriale si pensa di vendere un’ulteriore quota di partecipazione a Rai Way. Ora, a me hanno insegnato che quando ti devi vendere un bene per tirare a campare un mese, la situazione è grave. Poi c'è tutto il tema infrastrutturale, che riguarda l’ipotesi di fusione con Ei Towers. Questo vorrebbe dire annacquare ulteriormente la presenza del capitale pubblico in Rai. C’è chi sostiene che il 35% sia sufficiente a mettere in piedi una governance, ma non certo una governance pubblica.

Infine, c’è un tema sempre di natura economica, ma che riguarda tutti i cittadini, quello del canone. Come, dove e quando arriverà?
Noi non sappiamo ancora a quanto ammonterà il canone per l'anno prossimo, ma un ulteriore taglio questa azienda non lo regge. Mi compiaccio che il governo abbia annunciato di voler riformare il settore dell’informazione e i finanziamenti ad esso destinati. Ad oggi noi non sappiamo nemmeno come pagheremo il canone nel 2025. E se lo pagheremo con la bolletta, l’evasione sarà un grosso problema. Sappiamo solo che c’è una guerra fra i partiti della maggioranza a chi la spara più grossa: chi lo vuole togliere e chi lo vuole dimezzare. E poi c’è chi lo difende, come Forza Italia. Perché se tu abbassi il canone, devi alzare la pubblicità in Rai. A scapito di Mediaset.