PHOTO
La giornata della vigilia di Natale del ’76 era andata via come le altre di cui ho ricordo: frenesia, odore di fritto e viavai frenetico di nonni, zie e parentame vario. Come ogni anno mia madre aveva invitato una ventina di persone a cena. Con inopportuno senso della puntualità quella sera tutti cominciarono ad arrivare prima delle 20,00. Anche uno dei miei zii – puntuale fino a quel momento solo nei ritardi – che, per riportare le cose al loro ordine consueto, annunciò, appena messo piede in casa, di doversi allontanare un attimo perché non aveva fatto in tempo a fare gli auguri a un suo caro amico. Mi chiese di accompagnarlo, e a noi due si unì anche mio padre. Il tragitto fu breve. Dovevamo raggiungere il supermercato Coop dove, il sabato pomeriggio, con i miei genitori si andava a fare la spesa settimanale.
L’amico di mio zio lavorava lì. Lo conoscevamo bene anche io e mio padre. Mio zio e il suo amico si salutarono dinanzi l’ingresso del supermercato. Un abbraccio contenuto e qualche pacca sulle spalle, gesti più sobri di quanto fossi solito vedere in quei giorni di festa. Il negozio stava per chiudere: ricordo ancora il rumore delle saracinesche tirate giù di botto, per mettere fretta agli ultimi avventori. Mio zio e il suo amico parlavano fitto, mio padre stava ad ascoltarli in silenzio. Poco dopo si salutarono di nuovo, scambiandosi il buon Natale di rito. A me, come di solito ai ragazzini, toccò il ganascino e un’arruffata di capelli. Erano le 20,15 circa.
Arrivammo a casa dieci minuti dopo. Era tutto pronto. All’appello mancavamo soltanto noi tre. Finalmente tutti a tavola. A quel punto tutto sarà andato avanti in maniera così normale che niente mi è rimasto nella memoria. Quando il banchetto era entrato nel vivo delle chiacchiere e dei commenti incrociati qualcuno suonò alla porta. Un attimo di silenzio, interlocutorio, perché era chiaro che non si attendeva più nessuno. La famiglia era tutta lì, chiusa a riccio in un rito forse stanco ma ancora coinvolgente. Si alzò mia madre, invitandoci alla calma. Era la vicina di casa, senza dubbio. Chi altri poteva essere? Chi è? Silenzio. Poi chiama mio zio: c’è un amico che deve parlarti. Mio zio scende giù. Continuiamo a mangiare in silenzio. Quando risale, pochi minuti dopo, mio zio ha una faccia terrea e come implosa, di pianto senza lacrime. Senza dir nulla prende il cappotto e ci dice che deve andare via. Sarebbe ritornato più tardi. Cosa è successo? Agostino… gli hanno sparato. È morto? Non lo so… forse sì.
Se ne andò via senza chiudere la porta. Ma per quella sera non sarebbe tornato. Agostino era morto, si sentiva nell’aria che non poteva che essere così. Chissà perché poi: era difficile immaginare un uomo così perbene travolto dalla violenza di un assassinio. Continuammo a mangiare in silenzio. Natale, per quell’anno, era bello e finito. E io, a pensare che Agostino mi aveva fatto il ganascino pochi minuti prima, cominciai a sentire un calore insopportabile alla guancia.
Ci sono voluti più di venti anni per risentire la vampa di quel buffetto. Un pomeriggio qualsiasi, dopo un paio d’ore d’attesa presso gli uffici della Camera del Lavoro. Dovevo presentare la domanda per l’indennizzo di disoccupazione: cioè, in sindacalburocratese, la richiesta per il riconoscimento dei requisiti ridotti. Uno dei pilastri del nostro tanto sbandierato, e superato, a quanto pare, welfare state. Un esempio di ammortizzatore sociale che in realtà somiglia tanto a un salvagente sgonfio: hai lavorato, da precario, per qualche mese, e come ricompensa ti sembra di star chiedendo l’elemosina. Nell’imbarazzo del momento tendevo a sottovalutare cosa ci fosse voluto per arrivare a ordinamenti di quel tipo: è la ventura di tutti quelli che nascono dopo grandi rivolgimenti.
Se non hai vissuto sulla tua pelle il prima, se non hai pagato di persona il dramma di non avere nessuna tutela nel lavoro, se non hai mai dovuto chiamare «padrone» qualcuno – non riesci a renderti conto di ciò che comunque dà una parvenza di dignità alla tua vita.