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A tre anni dalla scomparsa di Alessandro Leogrande, riproponiamo una sua ricostruzione del dissenso nel blocco del socialismo reale, pubblicata su Rassegna nel 2009 per il ventesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino.
Il Muro di Berlino è caduto ufficialmente vent'anni fa, il 9 novembre 1989. Con la riunificazione di Berlino, e della Germania, si chiude la “guerra fredda” e si apre la transizione verso la democrazia di quelle che Václav Havel aveva definito sistemi post-totalitari racchiusi nell'impero sovietico. Ma quando incomincia a cadere il Muro, veramente? Quando inizia a sgretolarsi un sistema sovranazionale, spersonalizzato, illiberale, fondato sulla menzogna e sulla “vita nella menzogna” – come diceva ancora Havel – che pareva andare avanti per autocinèsi, e quindi essere sempre lontano dal collasso definitivo? Adam Michnik, una delle più lucide figure del dissenso polacco e ora direttore della “Gazeta Wyborcza”, non ha dubbi. Intervistato da Enrico Franceschini per “il Venerdì di Repubblica”, ha detto: “Per me ha cominciato a cadere a Danzica (nell'estate del 1980, ndr), quando la protesta degli operai di Solidarnosc sancì la fine del comunismo: erano dei proletari che protestavano contro la dittatura del proletariato.”
Ma forse si potrebbe fissare una data ancora precedente, più o meno a metà degli anni settanta. È allora infatti, dopo il riassestamento successivo alla repressione della Primavera di Praga e del '68 polacco, che prende forma sempre più radicalmente l'idea secondo cui non può esserci un “totalitarismo dal volto umano”: non è possibile cioè alcuna riforma del sistema socialista dall'interno del suo apparato politico-burocratico. D'altra parte, il pericolo concreto dell'ennesima invasione sovietica, aveva ormai caratterizzato come velleitaria e controproducente, oltre che irrealistica in regimi polizieschi, qualsiasi ipotesi rivoluzionaria o cospirativa in senso classico.
È allora quindi che matura, per dirla con le parole di Jacek Kuron (insieme a Michnik l'altra grande figura del dissenso polacco) un'idea nuova: “La società deve cercare di darsi forme di organizzazione indipendenti dal potere, per imporre le proprie esigenze al potere stesso”. E ancora: “Si tratta di costruire un sistema nuovo senza negoziarlo con il potere, ma imponendolo; una rappresentanza sociale che si organizzi in misura da imporre un dialogo concreto al potere. (...) Rappresentanze di operai e di contadini, organizzazioni autonome delle scuole superiori, movimenti studenteschi indipendenti, una cultura indipendente, un ventaglio di associazioni d'iniziativa sociale.”
Queste frasi sono tratte da una celebre intervista rilasciata da Kuron nel 1976 a “Mondoperaio”, la rivista che forse ha dato più spazio, in Italia, all'analisi del dissenso dell'Est. Proprio in quegli anni una riflessione simile venne svolta da Václav Havel nel suo pamphlet Il potere dei senza potere: la “vita nella verità” condotta da un numero sempre maggiore di persone (in un sistema che si fonda sulla menzogna e su frasi fatte cui non crede più nessuno, ma cui tutti dicono di credere per non essere bollati come “asociali” e “sovversivi”) avrebbe portato allo sgretolamento della fondamenta del regime.
In Cecoslovacchia lo sbocco intellettuale e politico di quanto preconizzato da Havel fu Charta 77. In Polonia, invece, da sempre il ventre più molle del sistema comunista, quello che auspicava Kuron sarebbe sbocciato nella straordinaria esperienza del Kor, il Comitato di Difesa degli Operai, una alleanza radicalmente nuova tra intellettuali di sinistra laici e anti-totalitari e operai dissidenti.
Nel 1976, in Polonia, il malcontento causato dal brusco aumento dei prezzi agricoli sfociò in una ondata di scioperi. La protesta si estese a macchia d'olio tra gli operai di Ursus e Radom, e il regime vi rispose con arresti e licenziamenti. Come spesso accade nelle proteste operaie, la questione salariale ed economica diventa presto radicalmente altro da sé, investendo l'insieme delle relazioni sociali e il loro controllo politico.
Abbandonando l'elitarismo del dissenso culturale, il Kor nacque per sostenere i lavoratori vittime della repressione, su iniziativa di Kuron, Michnik e di altri dodici intellettuali. Lo stesso Kuron trasformò la propria casa in una “casella di contatto”, un centro di raccolta delle informazioni sulle repressioni messe in atto contro il dissenso e contro gli operai, che poi venivano trasmesse in Occidente (tramite il canale dell'emigrazione polacca) e da qui comunicate – attraverso la Bbc e Radio Europa Libera – non solo nei paesi occidentali ma anche clandestinamente nella stessa Polonia.
Decisiva fu l'esperienza del Kor per la creazione del movimento operaio polacco, prima della nascita di Solidarnosc. Fu il Kor a lanciare lo slogan “Non incendiate i Comitati, create i vostri comitati”, sottolineando l'impostazione nonviolenta e improntata all'autodeterminazione dal basso della propria azione. Nel 1977, dopo l'amnistia degli scioperanti, il Kor si trasformò in Kss, Comitato di Autodifesa sociale, continuando la propria azione sotterranea. Prova ne è che, sul finire degli anni settanta, il giornale divulgato clandestinamente nelle fabbriche, “Robotnik” (L'operaio), aveva raggiunto la tiratura di 30 mila copie!
Una dittatura del proletariato che si trasforma in dittatura sul proletariato (per usare le parole di Fejtö) non teme niente di più che la disaffezione degli operai, e la loro organizzazione al di fuori delle strutture d'apparato ideate per loro. La dissoluzione del regime polacco era appena cominciata. E Kuron, per tornare ancora una volta all'intervista di “Mondoperaio”, l'aveva capito perfettamente: “A prescindere dal nostro futuro come Comitato, il movimento di solidarietà tra operai e intellettuali si svilupperà, e permetterà di assolvere ai compiti propri degli intellettuali verso gli operai: l'elaborazione di un programma politico e l'educazione autonoma degli operai stessi nel senso più vasto.”
Quanto è avvenuto dopo, nell'estate del 1980, non ci sarebbe stato senza il Kor, e senza la stretta alleanza tra il Kor-Kss e il Comitato unitario di sciopero di Danzica di Lech Walesa da cui sarebbe poi sorto Solidarnosc. E non ci sarebbe stato, nella seconda metà degli anni ottanta, dopo il noto colpo di Jaruzelski, un “sistema nuovo” dalle spalle larghe, in grado di condurre le trattative della “Tavola rotonda” per una transizione senza spargimenti di sangue.
Tra gli anni sessanta e la metà degli ottanta, Michnik e soprattutto Kuron sono costantemente entrati e usciti dal carcere: a volte per poche settimane, altre per alcuni anni. Nonostante questo, alla fine il filo spinato è stato spezzato, e lo stesso Kuron è diventato ministro del lavoro e delle politiche sociali. Prima di morire nel 2004, si è impegnato a lungo per sostenere la democratizzazione dell'Ucraina, per promuovere lì un lavoro di base “come da noi”, e per favorire (lui che era nato a Leopoli nel 1934) l'instaurarsi di relazioni diverse tra Polonia e Ucraina, paesi a lungo divisi, a cominciare dalla creazione di una commissione parlamentare per il riconoscimento dei diritti della minoranza ucraina. La rivoluzione arancione sarebbe scoppiata dopo la sua morte.
Sarebbe errato però pensare che non ci siano state rivolte operaie nei paesi dell'Est, prima degli anni settanta. Benché bollate come sobillate da agenti provocatori e forze reazionarie, furono rivolte operaie quella di Berlino Est nel 1953 e quella di Budapest nel 1956. E lo fu anche quella di Poznan, sempre nel '56, quando Albert Camus scrisse, contro tutti coloro che pretendevano l'ubbidienza incondizionata nei confronti di Mosca e la fuga dalla realtà, parole che in questo contesto pesano come pietre: “Si è esclusa da sola dal movimento operaio e dal suo onore quella gente che, di fronte allo spettacolo di lavoratori che procedono spalla a spalla davanti ai carri armati per esigere pane e libertà, reagiscono trattando questi martiri da fascisti o dolendosi virtuosamente del fatto che essi non hanno avuto la pazienza di morire di fame in silenzio in attesa che il regime decida, come si dice, di liberalizzarsi.” Come può, si chiedeva ancora Camus, il sangue operaio portare la felicità?