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Mentre la forza militare di Israele ha ripreso a bombardare quel che resta di Gaza e dei suoi cittadini, tra quelle persone chiuse nella morsa di un territorio bagnato di sangue c’è ancora chi pensa di potersi salvare attraverso il potere della parola, in particolare con l’energia misteriosa dei versi poetici.
Da qui questo libro, dal titolo Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza (pp. 156, euro 12), appena pubblicato in Italia grazie alla sensibilità non soltanto culturale di Fazi Editore. Il piccolo quanto preziosissimo volume contiene 32 poesie di autori palestinesi, scritte nella quasi totalità dopo la data di non ritorno del 7 ottobre 2023, quando gli attacchi vili e terroristi di Hamas hanno aperto un conflitto di cui ancora non si riesce a intravedere la fine.
Curata da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, la raccolta viene formata da una selezione dei versi di dieci autori palestinesi: Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul, Yahya Ashour, Heba Abu Nada, uccisa nell’ottobre 2023, di Haidar al-Ghazali e Refaat Alareer, ucciso nel dicembre dello stesso anno.
Troviamo così testimonianze dure da leggere, come quelle di Abu Nada o dello stesso Refaat Alareer (“Se devo morire / che porti speranza / che sia una storia”), scritte poco prima di essere uccisi dai bombardamenti, o di chi si affida ai propri versi prima di abbandonare la propria casa per fuggire, come al-Ghazali (“La libertà per cui moriamo / non l’abbiamo mai sentita”), o chi ancora prende carta e penna all’interno di campi profughi dentro i quali alle bombe si aggiungono freddo e fame, fino alla morte (“Posso scrivere una poesia / con il sangue che sgorga”, Yousef Elqedra).
Altro elemento da tenere in considerazione è la giovane età di chi scrive, ragazzi palestinesi consapevoli dell’assoluta precarietà delle loro esistenze che potrebbero concludersi da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, da un momento all’altro, come per alcuni di loro è accaduto. Di loro parla anche lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua prefazione al libro, laddove lo storico insiste proprio come questi poeti in erba, in queste condizioni, riescano a descrivere un’umanità dimenticata, perduta, che sembra appartenere a un mondo che non ci appartiene.
Sono poesie, osserva Pappé, “a volte dirette, altre volte metaforiche, estremamente concise o leggermente tortuose, ma è impossibile non cogliere il grido di protesta per la vita e la rassegnazione alla morte, inscritte in una cartografia disastrosa che Israele ha tracciato sul terreno”. Una cartografia all’interno della quale, è bene ricordarlo, il nuovo corso governativo statunitense, sostenuto dal ghigno di Benjamin Netanyahu, vorrebbe disegnare un lussuoso resort per gente abbiente, da costruire sopra i resti di cadaveri accumulati nel tempo, di cui circa 50 mila soltanto in questo ultimo anno e mezzo, sono cadaveri di bambini.
Da lui tradotte, è Nabil Bey Salameh a ricordarci come queste poesie non siano un lamento da accogliere pietosi, ma devono essere un invito a “vedere, a sentire, a vivere”, perché rappresentano attraverso le loro voci “il suono delle strade di Gaza, il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini e il canto degli ulivi. Sono una testimonianza di vita, un atto di amore verso una terra che non smette di sognare la libertà”.
Assuefatti da un mondo sempre più disumanizzato, sempre più abituato allo scorrere di immagini che ci appaiono lontane, che non sembrano riguardarci, queste poesie vogliono rivolgersi proprio a tutti coloro che non sanno far altro che girare la testa dall’altra parte, incuranti di quanto accade, narcotizzati da un concetto di “ingiustizia inevitabile” divenuto dominante, utile a rinfrancare i cuori di chi non vede altra strada oltre la distruzione e la morte di innocenti per annientare l’inaccettabile strategia omicida di Hamas.


Il libro, vale la pena ricordarlo, è anche un progetto di concreta solidarietà nei confronti della popolazione palestinese. L’editore Fazi ha infatti deciso di destinare il 40 per cento di ogni copia venduta a Emergency, così da sostenere la sua incessante attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza.
“La poesia nella mia prigione / È nutrimento / È acqua e aria”, scrive nel suo componimento Dareen Tatour; e forse, come l’israeliano Pappé sottolinea, questa raccolta può contribuire a rompere quello “scudo di silenzio e disinteresse che garantisce immunità ai responsabili del genocidio a Gaza”. Non è mai troppo tardi. O forse sì.