Futura editrice ripropone un piccolo ma prezioso volume che, per i suoi contenuti, è destinato alla perenne attualità. Sin dal titolo, Il diritto di migrare (pp. 78, euro 10), l’autrice Withol De Wenden chiarisce l’oggetto della sua riflessione, sia per quanto concerne la libertà di ciascun individuo di girare per il mondo, e di costruire la propria vita dove preferisce; sia per l’analisi approfondita delle tendenze migratorie, che rivela anche l’infondatezza di molte delle paure legate al fenomeno delle migrazioni.
Attraverso dati precisi, De Wenden ci ricorda come, in particolare nell’ultimo decennio, il flusso migrante verso il Sud del mondo stia raggiungendo quello destinato al Nord (110 contro130 milioni di persone), indicando già attraverso questi numeri una tendenza contraria rispetto a quella solitamente percepita. Un effetto legato non al divieto di uscita da un Paese, che soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino si è notevolmente affievolito, quanto al proibire l’ingresso in un altro Paese, fenomeno che in questi ultimi anni ha invece moltiplicato in maniera drammatica l’innalzamento di nuovi muri, infiniti campi per sfollati, chiusure di varie frontiere; il tutto, va da sé, ben condito da un massiccio rafforzamento del livello di militarizzazione dei controlli in sempre più vaste aree del pianeta.
Sin dalla prefazione al volume, curata dal professor Enrico Pugliese (cfr. il podcast), viene evidenziato l’assurdità di un mondo “dove tutto circola liberamente”, mentre “il diritto alla mobilità degli esseri umani non è riconosciuto come fatto giusto e naturale”. Ecco perché, secondo Pugliese e l’autrice del volume, ancor più diviene urgente definire un diritto internazionale dei migranti, recuperando il pensiero filosofico moderno che ha costruito un percorso di riflessione in questa direzione, da Kant a Locke sino a Voltaire, tentando in questo modo di individuare una gestione razionale, oltre che umana, degli inevitabili movimenti migratori di questo XXI secolo.
Un secolo, il nostro, che vede i migranti internazionali rappresentare soltanto il 3,1% della popolazione mondiale, laddove alla fine del XIX la percentuale era del 5%; per completezza d’informazione, nell’ultimo mezzo secolo il numero è triplicato anche, anzi specialmente, per una sorta di istinto di sopravvivenza rispetto al processo di globalizzazione in corso, aiutando in questo modo a mitigare almeno in parte gli spaventosi divari esistenti in tema di distribuzione della ricchezza.
Tra i tanti interrogativi che il testo induce nella testa del lettore, ce n’è uno più pressante di altri: alla luce di quanto scritto, che senso ha disegnare confini oggi? Per non rimanere ancorati a osservazioni di carattere troppo teorico, forse basta quantificare la risorsa che rappresentano per chi sa come sfruttarle tra scafisti e trafficanti, contrabbandieri e funzionari statali desiderosi di arrotondare il loro già vantaggioso salario mensile, et similia.
Ecco perché, giusto a un anno dalla strage di Cutro, per riflettere sui nostri, di confini, la ferita di quanto accaduto rimane ancora aperta. E per rimarginarla non bastano certo le parole di Giorgia Meloni, pronunciate all’inizio dell’anno nella tradizionale conferenza stampa, nella quale ammetteva che il momento più difficile del 2023 sia stato proprio quello: “Quando muoiono 94 persone, e ti dicono che la colpa è tua, è una cosa che pesa”.
Di certo pesa, come dovrebbero pesare, nella coscienza collettiva, le decine di migliaia di persone morte nell’abisso di quel “mare nostrum” divenuto nel tempo un cimitero a cielo aperto, coperto solo da un velo di crescente indifferenza, figlia dell’abitudine all’orrore quotidiano che passa davanti ai nostri occhi. Partire dal “diritto di migrare” per ciascun individuo, recuperando il significato profondo del rispetto di ogni vita umana, potrebbe rivelarsi la strada giusta da percorrere.