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Non ci sono parole migliori per che meglio possano rendere l’idea di cosa sia una rivendicazione sindacale: “pane”, inteso come aumento di salario che consenta di vivere dignitosamente; “lavoro”, come possibilità di avere il pane senza rinunciare alla dignità. Il 10 dicembre 1920 questo stava nella testa di un centinaio di braccianti, impegnati in una lotta sindacale nelle campagne di Canneto Sabino, nel comune di Fara Sabina. Chissà, invece, cosa c’era nella testa di un manipolo di Carabinieri, e del suo comandante, per arrivare ad aprire il fuoco su di loro, uccidendone sei subito e ferendone altri 20. Di questi, altri sette morirono per le ferite riportate, portando il conto finale a 11 morti (tra cui due donne).
La cronaca ci racconta di uno sciopero organizzato dalla locale Camera del lavoro (allora di Terni), che rivendicava l’aumento del cottimo per la raccolta delle olive. Una protesta che s’inquadra nelle lotte sindacali di quel periodo, passato alla storia come “biennio rosso”, periodo immediatamente precedente alla scissione della sinistra italiana e alla nascita del fascismo.
Questi due elementi non sono slegati dalle vere motivazioni che determinarono la strage: la contrapposizione tra lavoratori locali, consapevoli della propria forza, unitamente ai lavoratori stagionali provenienti dalle valli più povere dell’entroterra appenninico, bisognosi di lavoro, e i proprietari terrieri che vedevano scemare il proprio potere, quasi feudale, a causa di lotte sindacali che iniziavano a dividere il fronte padronale con il riconoscimento, da parte di alcuni, di diritti e salario ai braccianti. Queste motivazioni inquadrano bene il clima di cambiamento che stava vivendo il Paese, uscito economicamente distrutto dalla prima guerra mondiale, e che negli anni seguenti scelse di intraprendere una china disastrosa che lo avrebbe portato alla negazione delle libertà.
Veniamo ora ai fatti. Alla fine dell’autunno, dopo il fallimento delle trattative per l’adeguamento della paga dei raccoglitori di olive, la Camera del lavoro di Terni organizza uno sciopero per le campagne di Fara Sabina. I lavoratori sfilano in corteo davanti alle proprietà più importanti del circondario, poi intorno alle 11.30 si dirigono verso l’abitato di Canneto Sabino, dove molti di loro risiedevano. Lì una pattuglia di Carabinieri tenta di fermare il corteo in una strettoia che impedisce vie di fuga ai dimostranti: lo scontro, la strage.
Le cronache giornalistiche del tempo e i processi svolti negli anni seguenti non hanno reso giustizia. Non l’hanno resa ai morti e alle loro famiglie, non all’Arma dei Carabinieri, non alla verità e non alla storia, che non ha dato il giusto risalto a questi martiri: Leonilde Bonanni, Antonio Di Marco, Giuseppe Giovannini, Tullio Joschi, Francesco Lazzari, Carlo Marini, Luigi Pandolfi, Angelo Perini, Vincenzo Salusest, Luisa Turchetti e Marcello Vittori.
Qualche giorno dopo la strage un aumento salariale fu riconosciuto e, nel contempo, furono avviate interrogazioni parlamentari e inchieste della magistratura. Ma il Partito fascista, che negli anni seguenti prese il potere, si guardò bene dal cercare la verità: quella di una strage provocata e nascosta proprio da quella violenza, nella quale il fascismo affondava le proprie radici.
Il territorio quella strage non solo non l’ha dimenticata, ma ne rinnova il ricordo perché a questi martiri delle lotte sindacali noi tutti dobbiamo la democrazia e la libertà. Sentiamo quindi la necessità di rendere loro giustizia, dal punto di vista sia storico sia politico, provando a imparare da loro il coraggio di lottare per un ideale e per fare in modo che quell’esempio non si smarrisca nella memoria dei giovani d'oggi.
Claudio Coltella è segretario generale della Camera del lavoro di Rieti, Roma Est e Valle dell'Aniene