“In piedi sul terrapieno, con lo sguardo concentrato sulla corrente, mi resi conto che – nonostante tutti i pericoli – è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.
Chi aveva scritto queste parole era a Roma il 17 marzo 2019, per incontrare il pubblico di una manifestazione letteraria che si teneva all’Auditorium.
Quando si fotografa un autore che si ama, si tenta di fare un po’, coscienti o meno, quella vecchia stregoneria attribuita alla fotografia: rubare l’anima, almeno un pezzetto, un guizzo, un lampo negli occhi, un segno di quel talento affabulatorio, un’espressione non trattenuta.
Olga Tokarczuk, anche ferma davanti all’obiettivo, fa pensare alle cose in movimento di Giacomo Balla, perché in quella figura esile ed energica si sente vibrare il moto perpetuo dei suoi personaggi.
I Vagabondi, pubblicato in Polonia nel 2007, è stato tradotto diversi anni dopo (in Italia da Bompiani) e ha vinto il prestigioso Man Booker International Prize nel 2018.
“Quello che volevo dare ai lettori era un testo da cui risultasse qual è il senso del nostro viaggiare, di cosa andiamo alla ricerca viaggiando e come il viaggio ci trasforma”, ha detto la scrittrice quello stesso giorno a Roma, durante un’intervista radiofonica. Il viaggio non è più il tradizionale spostarsi nello spazio, ha spiegato, è fare esperienza di “un mondo in frammenti che dobbiamo tentare di riunificare, dandogli una forma compiuta nella nostra mente”. Che è poi quello che I vagabondi chiede al lettore, di dargli lui un senso e trovare la strada per attraversarlo.
Pochi mesi dopo, il 10 ottobre dello stesso anno, a Olga Tokarczuk è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura, per “l’immaginazione narrativa che con enciclopedica passione rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”. Anche la medaglia d’oro dell’Accademia svedese per la letteratura premiava il movimento di Olga, la narrazione cinetica che oltrepassa limiti e frontiere.