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Una madre e suo figlio stretti sotto una coperta di emergenza dopo lo sbarco, la luce accende il volto della giovane donna, che sembra contenere nello sguardo inclinato tutto quello che l’ha portata lì, sull’isola di Lesbo - la pena della partenza, i pericoli del viaggio - e poi quel vuoto nuovo, un futuro incerto. È una delle foto più celebri di Alessandro Penso ed è stata scattata nell’ottobre del 2015 nell’isola greca, uno dei tanti confini dolorosi e difficili dove il fotografo ha deciso di lavorare, non per documentare l’esodo, sostiene, ma per mostrare che tutto questo sta accadendo proprio qui, in Europa.
Per il suo lavoro sui migranti Alessandro Penso è stato insignito nel 2014 del primo premio nella sezione General news del World Press Photo, ma ha ricevuto anche il Magnum Foundation Emergency Fund, il Burn Magazine Emerging Photographer Fund e il Terry O’Neill Tag Award. L’anno successivo il reportage in Grecia è stato scelto come storia dell’anno da Time Magazine. È stato poi il soggetto della mostra itinerante The European Dream: Road to Bruxelles. Abbiamo chiesto a Penso di raccontarci la sua attività.
Com'è il lavoro del fotografo oggi, in particolare quello del fotografo che decide di occuparsi di temi sociali, fuori dai circuiti commerciali della fotografia?
È un lavoro un po' borderline, in Italia. Fotografo vuol dire tutto e non vuol dire niente, dipende dall’approccio che si sceglie - documentaristico, giornalistico, artistico. Fare le foto con l'idea di fare informazione fondamentalmente è il lavoro di sempre, perché si seguono un codice etico, delle linee guida, oggi però lo si fa attraverso una fotografia meno dura di prima, forse, più riflessiva. È un’arte abbastanza recente, siamo ancora nel medioevo della fotografia. Il digitale l’ha resa più semplice, più veloce, ma non ne ha mutato l’essenza. Ha cambiato solo il mercato: è diventata un mezzo a portata di mano, è entrata in tutte le case con i telefonini, ma è sempre un linguaggio in evoluzione, siamo ancora in una fase di esplorazione. La fotografia oggi si pone interrogativi dove prima c’erano dei dogmi, come quello dell’oggettività: di oggettivo c'è poco o niente, già dirigendo lo sguardo si assume una posizione soggettiva. Ci domandiamo come fare un lavoro che rifletta su certi temi, che non sia solo mostrare quello che succede, ma che possa sfruttare tutte le possibilità del linguaggio visivo per portare il lettore a pensare, come fanno un film, un documentario. Gli eventi sono il punto di partenza, è ovvio, ma la comunicazione ha una forma soggettiva, che si nutre anche di atmosfere e sensazioni.
Questo credo sia cambiato, la sfida di oggi è essere un po’ più umili ma anche un po’ più autori, ed è anche una forma di sopravvivenza, altrimenti faremmo informazione tutti nello stesso modo e diventerebbe quasi superfluo, perché la foto non è più una testimonianza assoluta, non facciamo più il nostro lavoro con quello scopo, perché nel tempo che impieghiamo ad arrivare sul posto sono già state fatte centinaia, migliaia di foto. Il lavoro fotografico oggi è l’abilità di creare un racconto, un documento, saperlo seguire, capire cosa si vuole trasmettere: lo era anche ieri, ma più che mai oggi, perché viviamo in un’epoca molto più mediatica. In mezzo a tanti fotografi e tanti mezzi di informazione, la sfida è portare un contributo in più.
Ti sei dedicato anche a storie di lavoro?
Ho seguito i lavoratori stagionali, ho raccontato i sikh nella pianura Pontina, mi sono occupato di storie di sfruttamento, migrazione e lavoro in nero, ma ho toccato anche argomenti come l’Ilva.
Com’è raccontare il lavoro attraverso la fotografia oggi?
Il racconto del lavoro è difficile, perché in realtà è una narrazione molto più vasta: è il racconto della società, dei diritti, della povertà. Quando ero all’Ilva gli operai mi dicevano “io devo scegliere tra la salute e il lavoro”, qualcosa di inaccettabile, non può essere concepito ancora come una schiavitù. Quando mi accosto a questo tema non si tratta mai soltanto di lavoro, ma della società in cui viviamo, non si racconta mai il lavoro in sé e per sé, ma chi ha la possibilità di fornirlo e ne ha bisogno, cosa quest’ultimo è costretto a fare e ad accettare, ma anche da quale situazione arriva.
Ogni volta che raccontiamo il lavoro raccontiamo tutti noi, il mondo in cui viviamo. Questo è il punto di vista che devo sempre mantenere. Lo sfruttamento riguarda tutti, se c’è un problema ambientale e di inquinamento tutti noi siamo coinvolti. L’Ilva ci sembra qualcosa di lontano, che colpisce solo i tarantini: sono loro che muoiono adesso, ma quanto accade a Taranto può colpire indistintamente tutti. Il destino dell’Ilva, i lavoratori in cassa integrazione, quelli che perdono il posto, riguarda tutti. Da un punto di vista documentaristico è importante mostrare l’ingranaggio della società, cosa comporta tutto questo, perché è sbagliato e perché dovremmo essere sempre dalla parte dei lavoratori, al loro fianco nel momento del bisogno, perché è una lotta che coinvolge tutti.
È lo spirito con il quale ti sei avvicinato a uno dei temi che hai trattato di più, quello dell’immigrazione?
Ad alcuni temi ci si affeziona perché hanno bisogno più di altri di una voce. I migranti non sono più un popolo, sono persone che si trovano in paesi che non sono i loro, dove non hanno diritti. C’è bisogno di un’informazione giusta, perché anche quella può diventare uno strumento sociale attraverso il quale si crea paura e si muovono voti. Siamo in grado di fare di queste persone quello che vogliamo, il loro destino è in balia dei cambiamenti della compagine politica: se vogliono revocargli il permesso di soggiorno per motivi umanitari possono farlo, se vogliono metterli su un aereo e rimandarli indietro possono farlo, la verità è che queste persone non sono per il nostro Paese un problema enorme come ci raccontano. È facile prendersela con chi non ha diritti. Il mio lavoro mi chiama a contrastare i poteri forti, cercare di smascherare le menzogne, un contributo sociale che offro non solo per difendere categorie a rischio ma per senso civico nei confronti dei miei concittadini, perché un’informazione corretta aiuta a non essere strumentalizzati. Questo vale per qualsiasi tema: andare a vedere se quello che dicono è vero, se è davvero quello che succede, perché fare chiarezza è un bene per tutti.
Il tuo lavoro è stato contestato?
Mi hanno detto tante volte: “Se ti piacciono tanto i migranti vai in Africa”. Sono stato minacciato, insultato, mi è stato detto che il mio lavoro danneggia il Paese, mi hanno invitato a occuparmi d’altro. In Grecia mi hanno messo in guardia: “Per un po’ non tornare perché ti cercano”. Avevo denunciato un attacco a sfondo razzista, una persona aveva investito di proposito un ragazzo, un migrante, a Corinto. Ho avuto problemi anche in Macedonia, in Turchia. Quando si lavora fuori dai radar capita di essere ostacolati, è la prova che si dà fastidio. Sono andato a Idomeni quando nessuno ancora raccontava le persone che attraversavano il confine: c’era una grande rete di traffico, forse compiacente. E allora ti arrestano, ti sequestrano tutto, ti dicono: “O te ne vai, o ti tengo dentro”. Inizialmente in Grecia anche la polizia era schierata, c’era un odio profondo nei confronti dei migranti e non volevano che fosse documentato il modo in cui li trattavano, che si sapesse che non accettavano domande d’asilo e che li mandavano via. Ho visto cambiare questo atteggiamento con il tempo.
Anche in Italia, non solo in Grecia, mostrare certe immagini può procurare problemi a un fotografo…
Esiste una legge europea che non viene applicata, e farlo notare crea disturbo. Sono stato al confine a seguire i respingimenti che l’Italia aveva concordato con la Slovenia, una storia di cui si mormorava e che ho deciso di seguire. Si sono allarmati, è arrivata la polizia di frontiera, e se un ufficiale mi diceva di non preoccuparmi, che potevo continuare a fare il mio lavoro, poi arrivava un altro poliziotto e mi diceva che le lamentele arrivavano da Roma e che se usciva la mia storia era un casino. Pensavano di fare tutto in sordina. Ma è giusto informare i cittadini di quello che sta succedendo. Se si agisce contro la legge si devono preoccupare perché oggi tocca a quelle persone lassù, e domani a chi tocca? Io non parlo mai solo di un migrante, è ancora una volta qualcosa che riguarda tutti e che può diventare un boomerang, perché si perdono i cardini della società. Come il salvataggio in mare, non si considera più una legge importante: la vita si salva in mare, questo vale per tutti, e mettere in discussione un principio come questo per fermare l’immigrazione equivale a distruggere le nostre fondamenta.
Adesso a cosa stai lavorando?
Sto cercando di capire come affrontare le conseguenze del Covid, l’impatto che ha avuto su alcuni settori. È un momento di ricerca su come raccontare bene questo nuovo mondo, che si è fermato per un anno e ha dimostrato di avere grandi lacune, di essere più fragile e più connesso di quello che pensiamo. Sto cercando il mio punto di vista su quello che è accaduto.