Matteo Salvatore è stato un compositore e cantante di musica popolare che ha contribuito a tramandare fino a noi oggi una tradizione antica, cui appartengono anche i canti di lavoro. Uno dei suoi più famosi è Lu Suprastante, che il Nubras Ensemble ha recuperato in una versione propria, riproponendola attualmente nel corso dei propri concerti. Un ensemble di sette musicisti nato nel 2022, con l’idea di costruire un ponte tra la musica popolare nostrana e le sonorità della musica balcanica. Il collettivo sarà in concerto a Roma il 5 ottobre, a Santa Libbirata- La Carretteria.

Nubras Ensemble

Giulia Anita Bari, violinista, com’è iniziato il vostro percorso comune?

Il nostro è stato un incontro tra musicisti che per motivi e con modalità diversi si sono avvicinati ai linguaggi dei Balcani. Chi lo ha fatto molto prima di noi, come Giovanni Lo Cascio che da trent’anni li approfondisce come percussionista; chi come me, Carla Mulas González e Rachel Blueberger, che venendo da percorsi classici ci siamo avvicinate molto più tardi allo studio di queste lingue. Era Capodanno del 2022, io e Giorgio Gadotti siamo saliti a piedi su una malga e lì abbiamo incontrato Rachel, polacca, che suonava il violino tenendolo tra le gambe, come se fosse un violoncello. Lei è una grandissima virtuosa. Io e Carla, invece, ci siamo incontrate a Roma, in un gruppo che suonava musica balcanica e dunque eravamo circondate da brass, ottoni. Ci siamo avvicinati e abbiamo deciso di creare un ensemble che si avvalesse anche delle sonorità più delicate degli archi, che di solito vengono “coperte” da quelle più potenti e veraci degli strumenti a fiato. Da qui è nato il nome, originariamente No brass, che poi si è evoluto in Nubras, una parola araba che vuol dire “coraggioso” e che invece nella lingua urdu indica la lanterna che illumina, apre la vista verso nuove strade.

Coraggiose sono alcune vostre scelte artistiche, come quella di riprendere un pezzo, “Lu suprastante”, di Mattero Salvatore.

I braccianti e i “cafoni” di oggi sono molto simili a quelli di ieri, è cambiata solo la nazionalità. Ma le condizioni di vita e di lavoro sono purtroppo tristemente attuali. Dopo l’ennesima sconcertante morte a Latina avremmo dovuto tenere un concerto, e tra i vari canti di lavoro abbiamo scelto questo, perché ci sembrava giusto omaggiare le lavoratrici e i lavoratori italiani e stranieri impiegati ogni giorno nella raccolta dei campi. Nella rivisitazione del brano, abbiamo mantenuto elementi tradizionali come la fisarmonica e la voce, inserendo però uno strumento marocchino - il qraqeb - una sorta di nacchere in ferro che venivano usate dagli schiavi dell’Africa subsahariana impiegati in Nord Africa. I vecchi schiavi e i nuovi schiavi.

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Nuovi schiavi è un’espressione forte, ma descrive bene le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri impiegati nelle campagne italiane.

Per diversi anni ho lavorato, con l’associazione Terra, a un progetto con ragazzi stranieri, finalizzato all’uscita dal ghetto, grazie al quale siamo riusciti a creare un’orchestra di braccianti e di musicisti professionisti italiani. Confrontandomi con queste persone, mi sono resa conto che spesso sono esse stesse a vivere la condizione di oppressione in cui si trovano come un fatto ineluttabile, che non può essere cambiato. E coloro che, invece, percepiscono lo sfruttamento e le mancanze, hanno però spesso paura a denunciarle.

A proposito di Latina, non è stato “solo” l’ennesimo tragico incidente sul lavoro, ma un vero e proprio passaggio del confine tra l’umano e il disumano. Eppure, a pochi mesi dal fatto accaduto, sembriamo averlo già dimenticato Satnam Singh, abbandonato agonizzante, con il braccio tranciato poggiato dentro a una cassetta della frutta.

Mi viene in mente quello che ha scritto Hanna Arendt a proposito dei lager nazisti: “Crimini che non si possono né punire né perdonare”. Qualcosa di talmente disumano che si fa fatica anche a dirlo. Questo è ciò che avviene quotidianamente all’interno dei ghetti, dove le persone vivono in case di cartone o lamiera, senza alcuna forma di igiene, in questi posti isolati e lontani da qualsiasi contesto urbano. Posti che non si devono vedere, per non intaccare la morale pubblica.

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E che invece la musica può cantare. La musica può anche denunciare.

L'arte nel nostro Paese viene sempre più spesso considerata una questione di contorno, un sottofondo da bar, ma in realtà attraverso l'arte si arriva a un pubblico molto più vasto. Magari non sempre attento a ciò che accade in altre comunità, me proprio per questo l’arte può andare molto più in profondità di un’iniziativa politica o di un articolo di giornale. Lo spettacolo dal vivo è uno strumento molto potente.

Tornando al pezzo, è in dialetto foggiano, un dialetto molto stretto e di non facile comprensione. All’inizio però c’è un’introduzione recitata in italiano.

Il testo parlato fa parte del brano, è un testo originale di Matteo Salvatore che lui stesso raccontava prima di iniziare a cantare, per renderlo ancora più divulgativo e più incisivo. Quindi è una scelta dell'autore che noi abbiamo rispettato. Il suprastante era letteralmente l'ufficiale del comune che veniva incaricato per sorvegliare le terre, una figura che nella mezzadria era molto diffusa. Poi nel tempo il suprastante è diventato sempre di più il caporale, la persona che fa da raccordo tra i datori di lavoro e i lavoratori, spesso della stessa nazionalità della squadra che coordina. E tutt’ora, come racconta la canzone di Salvatore anche se riferendosi a un’altra epoca, i caporali che gestiscono le squadre trattengono una quota dalla paga per i trasporti, per il cibo, per l’acqua. Nella piccola, come nella grande distribuzione della filiera agricola, i nuovi schiavi lavorano senza poter neanche bere.