“Sono i braccianti della zona, i nuovi lavoratori della terra”, scriveva Alessandro Leogrande sulle pagine di Rassegna nel 2009, raccontando una domenica in un tempio sikh dalle parti di Velletri: un racconto che partiva da quel tempio e si addentrava nella vita della comunità, nella realtà del lavoro nei campi, nelle pieghe del caporalato.
Il 21 ottobre 2019, giorno in cui è stata scattata questa foto, non era domenica, era lunedì e i braccianti sikh dell’Agro Pontino recitavano tutto un altro genere di preghiera – fiera, corale, determinata.
“I nostri diritti dacceli qui”, era il mantra della manifestazione pacifica che li ha visti occupare in tremila piazza della Libertà, a Latina. A spingerli a raccogliersi in tanti, il grave episodio dell’imprenditore agricolo che aveva minacciato i lavoratori con un fucile: dietro quel gesto estremo, lo sfruttamento di sempre, condizioni di lavoro pesanti, retribuzioni indecorose.
“Chi schiavizza dei lavoratori agricoli può incorrere in due tipi di reato: la riduzione in schiavitù, molto pesante e difficile da provare, oppure il ricorso al lavoro nero, che si risolve con una semplice sanzione amministrativa”, spiegava sempre Leogrande 11 anni fa.
All’interno di questa forbice, a volte più vicini a una lama, a volte all’altra, in una terra di mezzo comunque inospitale, si trovano ancora i braccianti indiani dell’Agro Pontino, quelli della provincia di Roma, e tanti altri cittadini stranieri arrivati da altri paesi per trovare lavoro nei campi di altre regioni italiane. Vengono per essere impiegati nelle terre dove un tempo lavoravano i braccianti italiani e per sperimentare le stesse condizioni di sfruttamento che questi subivano agli inizi del Novecento.
“Un mondo che difficilmente si lascia raccontare, un mondo che difficilmente si lascia avvicinare, e che è il mondo della nuova sofferenza contadina”.