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Quattordici Pinocchi che si perdono nel mare delle proprie vite e a uno a uno vengono inghiottiti da un pescecane che li imprigiona nella sua pancia. La sfida è quella di non farsi digerire. È questa la prima metafora che ci suggerisce lo spettacolo teatrale “Nella pancia del pescecane” di e con i detenuti della casa di reclusione di Rebibbia di Roma, Alessandro, Andrea, Aniello, Carmelo, Daniele D., Daniele N., Daniele P., Dylan, Frank, Giorgio, Giulio, Romolo, Samuele, Vittorio.
Andato in scena lo scorso 14 maggio alla Sala Umberto, nella Capitale, questo lavoro teatrale è frutto di un progetto iniziato nel 2020 e con il quale in questi anni l’Associazione Teatrale Culturale Saltimbanco ha promosso una serie di iniziative. Quest’anno è stato realizzato un laboratorio di drammaturgia ispirato al Pinocchio di Collodi guidato dalle registe Emilia Martinelli e Tiziana Scrocca. Un progetto realizzato con i fondi dell’8X1000 della Chiesa Valdese.
Rinchiusi nella gabbia del cetaceo i 14 Pinocchi, mentre lottano per non farsi digerire, ripercorrono la storia del burattino di legno, ma per narrare le loro storie, il loro essere Pinocchio. Ci raccontano il loro vissuto senza mai citare il reato che li ha condotti in carcere. Una prigione, simboleggiata dalla pancia del pescecane, nella quale lo spettatore entra attraverso il clangore assordante delle porte e delle sbarre che risuona in questo spazio immaginario. Rumori che non lasciano indifferente lo spettatore.
Nessuno di loro vuole perdere i ricordi, nemmeno i più dolorosi, non vuole perdere la propria identità, da conservare per quando riusciranno a uscire di nuovo in mare aperto e nuotare verso la riva, verso la terra ferma, e ricominciare una nuova vita libera. C’è anche chi ha paura di uscire, perché non sa cosa potrà attenderlo e allora si mette a studiare in carcere, per prendere una laurea, come se quella fosse davvero la sua dimora stabile. È una paura che forse tutti hanno.
La storia di Pinocchio c’è, perché vediamo in scena un gatto e una volpe, uno napoletano e l’altra romana, che non hanno alcunché da invidiare a due attori professionisti. C’è un Mangiafuoco slavo e un agile Lucignolo. C’è anche una Fatina, che è un pugile che si commuove raccontando la propria storia. Ci sono idee sceniche che riempiono gli occhi, come le 14 farfalle che hanno appena lasciato lo stato di crisalide, fogli colorati agitati in aria sotto luci che le fanno scintillare magicamente. Ci sono 14 uomini che danzano abbracciati a scope di saggina in un gesto di profonda intimità.
Martinelli e Scrocca hanno accuratamente fatto emergere i loro talenti. Vediamo allora un ballerino che ci incanta con le sue movenze, un musicista che canta un brano da lui composto (coadiuvato da Assia Fiorillo e Matteo Panziron), sentiamo voci potenti e una scrittura collettiva, firmata da tutti e 14, che tiene per tutta la durata dello spettacolo.
Non mancano i momenti in cui si ride, di una comicità che si intuisce spontanea, e nemmeno quelli in cui è difficile resistere alle lacrime. È quando si vede un uomo raccontare dell’amore per la figlia che non può quotidianamente vedere crescere, un altro che racconta del padre, un altro ancora di un abbraccio all’amata. Il denominatore comune è il bisogno delle persone amate e il loro pensiero che li sostiene per riuscire comunque a pensare al futuro. Il potere del teatro che ci porta in realtà che ci sono sconosciute, ma nelle quali riconosciamo parte di noi.
Chi è entrato a teatro credendo di fare un esperienza sociologica, si è trovato invece davanti a un lavoro teatrale di notevole spessore artistico, grazie alla maestria di due registe di notevole calibro e alle qualità artistiche di 14 uomini, che non solo sanno stare perfettamente in scena, ma recitano, ballano e cantano come se lo facessero da sempre. Con naturalezza e potenza hanno veicolato sentimenti e idee, suscitando emozioni e riflessioni che ci hanno ricordato il Pinocchio che è in noi, quello che si è perso in mare, magari senza finire nella pancia del pescecane.