Quattordici ore al giorno con le gambe immerse nell'acqua melmosa, tra topi, bisce, sanguisughe. Poco da mangiare, poco da gioire. Una paga misera, ancor più perché costrette ai soprusi fisici e psicologici del caporale. La storia delle mondine, che la giornalista Bruna Bertolo ripercorre nel suo libro (Mondine. Donne e lavoro in risaia), ci dice molto del nostro passato e, purtroppo, anche del nostro presente. Un’esperienza di lotta unica nel suo genere, emblematica per i suoi riti e miti, che sono passati alla storia. 

Bruna Bertolo, perché ancora oggi, nel 2024, è importante recuperare una storia antica come quella delle mondine?
È importante proprio perché non se ne parla più, mentre invece le mondine sono state grandi protagoniste di quel cammino lungo e difficile verso la conquista dei diritti delle donne. Non è una storia poi così lontana. Alle presentazioni mi capita di incontrare i nipoti, o addirittura i figli di qualche mondina. Forse è una storia che è stata dimenticata perché focalizzata soprattutto in alcune regioni (il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, l'Emilia Romagna). Ma a maggior ragione per questo motivo ho sentito la necessità di raccontarla, da giornalista che si occupa di storia di genere.

Lei ha ricostruito la storia delle donne del Risorgimento, per esempio. In un’ottica diacronica, possiamo dire che l’esperienza delle mondine sia stata fondamentale non solo per la storia del femminismo, ma anche per una lettura della storia del lavoro in chiave di genere?
Probabilmente rappresenta una delle esperienze più importanti, in cui le donne si sono percepite con una coscienza di classe che le ha unite. Le mondine hanno creato delle ritualità della lotta, sono state le prime donne a scioperare, nelle paludi e nelle risaie, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Hanno nutrito il seme di una nuova speranza di vita, hanno preparato i primi quadri sindacali, hanno in un certo senso anticipato le prime vere piattaforme rivendicative, e contribuito a far maturare un’autentica coscienza di classe. Inoltre, proprio tra le mondine ci sono stati i primi morti sul lavoro. Pensiamo ad Albina Belletti e ad Annunziata Felicetti, uccise nel maggio 1890 a Conselice nel corso di una rivolta di braccianti, i poveri tra i poveri.

Senza dimenticare, a proposito di sicurezza sul lavoro, le malattie causate dal clima insalubre in cui erano costrette a trascorrere le giornate, sempre ammollo dalla vita in giù
È vero che era un lavoro tutto sommato semplice, però si svolgeva in un luogo terribile, in mezzo al fango, a piedi nudi. In quell'acqua putrida c'era davvero di tutto: bisce, topi, zanzare. E poi le sanguisughe, che all’epoca venivano utilizzate in medicina per fare i salassi. Le mondine si lasciavano mordere e poi le catturavano con un vaso di vetro, per andare a venderle alle farmacie, guadagnando di più di quanto riuscissero a fare con una giornata di lavoro. Le mondine lottano per un salario più dignitoso, per avere a fine stagione il riso buono al posto di quello vecchio (ne venivano consegnati quaranta chili a testa). Lottano per avere un vitto decente, un po’ di vino e qualcosa di diverso da fagioli e poco altro. Lottano per non essere costrette a dormire tutte ammassate in capannoni promiscui insieme agli uomini, su brande con poca paglia.

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La cosa più incredibile di questa sua descrizione è che sembra perfettamente calzante alle condizioni di vita e di lavoro delle braccianti di oggi. Pensiamo alle donne rumene sfruttate e ricattate nelle campagne del ragusano
Questa cosa fa venire i brividi. Il caporalato viene da lontano ed esiste ancora. Il caporale di anno in anno doveva riconfermare il posto alle mondine, privilegiando quelle che lavoravano fuori orario, facendo straordinari non pagati. Una storia antica ma che purtroppo conosciamo bene. Tristemente, non è cambiato niente.

Nel suo lavoro di ricerca è riuscita a intrecciare la bibliografia con la biografia, attraverso il recupero di testimonianze dirette?
Poche purtroppo – perché le mondine sono quasi tutte scomparse - ma molto preziose. Mi è capitato un episodio durante una presentazione nel paese dove vivo, Rivoli, in provincia di Torino. È arrivata una signora accompagnata dal figlio. Aveva 94 anni, e quando ne aveva 14 aveva lavorato in risaia per un lustro. Allora si cominciava molto presto a lavorare e si prendevano anche bambini piccoli, li chiamavano i “fanciulli”. Tanto che persino nelle ricostruzioni storiche si usa il termine al maschile piuttosto che al femminile, i mondariso. Insomma, questa signora prese il microfono e cominciò a raccontare la sua storia, con le lacrime agli occhi. Tutti i suoi racconti coincidevano con quelli scritti nel mio libro. Per quanto riguarda la mia ricerca, ho avuto modo di consultare alcuni documenti specifici, come il registro della prima mondina, una sorta di agenda in cui si annotavano gli orari di lavoro fatti e tutti i dettagli dell’attività. Mi sono recata alla Tenuta Colombara, l'unica in Piemonte che ha ancora un dormitorio, e in diversi archivi storici.

Chiudiamo il cerchio tornando alla ritualità della lotta, il cui elemento più tipico è il canto. Cosa ha rappresentato e rappresenta tutt’ora?
Il coro rappresentava un modo per alleggerire le condizioni di lavoro. “Canta che ti passa”, si dice. Se qualcuna aveva mal di schiena intonava un canto, a cui via via si aggiungevano altre voci. Sono canti di protesta, ma anche perfettamente intonati, con prime voci e seconde voci. “Musiche dondolanti nel ritmo della monda” le definisce la scrittrice Renata Viganò in un passaggio del mio libro: “Un passo avanti, una manciata d'erba e la nota che accompagna e aggiunge. È strano come in tutto il mondo, come in tutto il mondo si assomigli il cantare di quelli che fanno lavori pesanti sotto il sole. Questi cori delle mondine italiane hanno il medesimo canto delle negre e dei negri nelle piantagioni di cotone. Fratelli, nella stessa sterminata e sfruttata fatica, cantano con un'unica voce”.

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