Il titolo di questo volume, L’odio dei poveri (Ponte alle Grazie, pp. 316, euro 18), viene spiegato nella sua doppia accezione all’inizio del capitolo primo: “L’odio dei poveri, in entrambi i sensi del genitivo, attivo e passivo. Nel senso che il povero è odiato e può odiare”. A scriverlo Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista, che nelle riflessioni sul tema per “il manifesto” aveva già dato ai suoi lettori l’opportunità di entrare tra i meandri di un’analisi affatto semplice, come semplice non è l’argomento di cui tratta.
Avvalendosi anche di una ricerca condotta negli ultimi anni per il dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre riguardante il reddito di cittadinanza in Italia, e alle relative politiche pubbliche per l’occupazione, Ciccarelli mette insieme i segmenti sparsi della società contemporanea, non solo italiana, raccolti sotto l’ombrello di un neoliberalismo che per l’autore è un nuovo liberalismo politico e non soltanto economico, come viene solitamente analizzato dai comunicatori di professione, e che può esser definito come una “variante politica del rapporto tra democrazia e capitalismo basato su un progetto classista”.
Affermatosi attraverso diverse strategie di potere, che alternano indifferentemente colpi di stato a elezioni almeno in apparenza democratiche, il neoliberalismo dei nostri giorni utilizza principalmente lo strumento del workfare, versione subdola e volutamente impoverita del welfare, che consente a chi governa di mantenere lo stato delle cose come meglio conviene a pochi, sempre più ricchi, o di modificarle sempre a loro vantaggio, a scapito dei molti, della moltitudine. Una moltitudine sempre più povera anche se lavora, ed è proprio questo uno tra gli elementi costitutivi del sistema di workfare utilizzato, che nell’utilissimo glossario posto in appendice viene descritto come “un’espressione che indica lo Stato sociale conservatore”, e dunque “un insieme di istruzioni tecniche, norme e politiche socio-assistenziali, ispirate alle condizionalità del welfare”.
Tutto questo comporta, per chi tenta di uscire dalla sua condizione di povertà, l’involontario assorbimento all’interno di un groviglio da cui è sempre più complicato dipanarsi, perché la formula delle “politiche attive del lavoro” ormai troppo spesso si rivela poco altro che un metodo di assistenzialismo da accettare e basta, all’interno di un sistema passivo che ti vuole passivo, perché in realtà non concede potenziali e nuove opportunità professionali, e dunque esistenziali, elargendo soltanto quanto basta per una sopravvivenza che definire dignitosa diviene ogni giorno più complicato.
Accanto ai working poor, categoria da qualche tempo riconoscibile non soltanto nel nostro Paese (l’autore ci invita a riguardare con maggior attenzione critica la pellicola del 2016 di Ken Loach “Io, Daniel Blake”), ci sono poi i poveri-poveri, quelli che incrociamo per la strada, che facciamo finta di non vedere o che guardiamo soltanto un attimo, per attutire un istintivo senso di colpa, di dubbia provenienza, che mette direttamente in discussione i rapporti sociali, i rapporti tra le persone.
Ecco perché forse la prospettiva comune dovrebbe essere quella di un commonfare, termine che si incontra nelle conclusioni al libro, non a caso titolate “Non c’è un’ora X”, perché non esiste un tempo stabilito per cambiare l’attuale (dis)ordine delle cose, ma esiste un tempo per tentare di liberare la forza-lavoro, per una liberazione della forza lavoro, restituendo a noi stessi la dignità delle proprie esistenze. Potrebbe accadere così, nella “liberazione del tempo sociale”, che niente potrebbe essere più importante per un essere umano della vicinanza con un altro essere umano.
Torneremmo in questo modo a intendere la povertà come sinonimo di solidarietà, una solidarietà costruita su azioni concrete per tentare di cambiare la realtà quotidiana delle persone, lasciando la miseria a chi è misero nelle sue intenzioni, quelle di continuare a ottenere immensi profitti per pochi a scapito di tutti gli altri.