Dopo il colloquio con Bruno Cartosio sulla situazione politica e sociale degli Stati Uniti , a un mese dal voto che eleggerà il prossimo presidente prendiamo spunto dal libro di Romeo Orlandi Fabbrica e ring. Sei racconti dal Michigan (DeriveApprodi, pp. 269, euro 18), per conoscere meglio uno degli Stati che potrebbe determinare l’esito del 5 novembre tra Kamala Harris e Donald Trump.

Lo stesso Trump si è recato di recente in Michigan (nella scorsa tornata assegnato a Joe Biden, seppur con un minimo scarto di voti) ricevendo tra l’altro l’endorsement di Ameer Ghalib, sindaco di religione musulmana della cittadina di Hamtramc. La tendenza democratica di questo Stato negli ultimi decenni stavolta potrebbe infatti variare, e i motivi possono individuarsi anche leggendo i sei racconti scritti da Orlandi, che mescolano vite di fabbrica con la passione per la boxe attraverso una scelta narrativa, quella del racconto, ormai desueta nella scrittura contemporanea ma che proprio nella tradizione letteraria americana trova illustri maestri, su tutti Raymond Carver. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.

Da dove nasce questo connubio così atipico tra fabbrica e pugilato, e come mai la scelta di ambientare le storie del libro in Michigan?

Fabbrica e pugilato rappresentano i binari che ho scelto per illustrare il tessuto statunitense e la sua evoluzione nell’arco di un secolo. La fabbrica è il luogo della società, del vivere e lavorare insieme. Incarna l’essenza del capitalismo, è intrisa di fango, sudore e lacrime. È il luogo dello scontro nevralgico, quello tra capitale e lavoro. Il suo fascino non è estetico, ma deriva dalle contraddizioni, dalla durezza giornaliera, dalle conquiste e dalla trasformazione sociologica dei lavoratori nella middle class.

I protagonisti appartengono tutti al mondo operaio.

Sì, e gli operai dei racconti non mostrano tratti retorici o comportamenti eroici. Affrontano i problemi quotidiani, risparmiano per la famiglia, per l’avvenire dei figli. Lottano per l’immediatezza, per i beni materiali, apparentemente senza connotazioni politiche, tanto meno ideologiche. Eppure queste loro domande appaiono dirompenti e pericolose per il sistema. Le lotte che vengono illustrate nei sei racconti sono durissime, fertili, spesso sindacalmente vittoriose.

Cosa rappresenta il pugilato in questo contesto?

Il pugilato rappresenta l’individualismo, l’altro bastione dell’American way of life. Simbolizza lo spirito libero, la conquista della felicità, l’ambizione al successo, l’avventura della frontiera. Nella disciplina della palestra, nella durezza degli allenamenti, nella solitudine del match, il pugile lotta per la sua affermazione. Distilla la tensione fino all’ultima goccia, a un destino di vita o di morte. Viene ispirato dalla pursuit of happiness, la ricerca della felicità, sancita dalla Costituzione americana. I pugili neri sono l’esempio per chi ambisce al riscatto. Ma non sfuggono alla radicalità delle scelte: i più conformisti - il più importante è Joe Louis, il peso massimo simbolo di Detroit - vengono conquistati dal sistema, i più ribelli scontano differenze sociali che appaiono eterne.

Il volume è composto di sei racconti che attraversano più di un secolo, partendo dagli inizi del Novecento sino alla pandemia del 2020. Perché proprio la formula del racconto, una tecnica narrativa sempre meno frequentata in letteratura?

Ho trovato nel racconto la formula più congeniale per esprimere la complessità di una vicenda lunga e molto articolata. Nella narrazione di eventi quotidiani o nel dipanarsi di amicizie e amori, i protagonisti esprimono le loro opinioni, evidenziano le loro storie personali. Rappresentano angoli di visuale ai quali viene data pari dignità e valore. Nella semplicità delle esposizioni, nel lessico forbito di professori e ingegneri, nella comunicazione moderna dei giornalisti, vengono messe in risalto le differenze e le contraddizioni di una società che ha teso a omologare le disomogeneità.

Una società che appare sempre più complessa...

The world is a complicated matter, diceva il Presidente Obama. Per rappresentare questa complicazione sono ricorso al racconto. I personaggi – soprattutto nei loro dialoghi – la sintetizzano, consentendo allo stesso tempo di essere funzionali allo svolgimento della vicenda. Non sono liberi, ma strumentali appunto alla complessità. Poi, è evidente che il mio punto di vista emerge. Ma è il risultato di una dialettica solo apparentemente neutra. Insomma, lo schieramento traspare ma segue l’analisi, non la precede.

Che ruolo riveste oggi la fabbrica nello stato del Michigan?

La fabbrica fordista è tramontata. Le grandi concentrazioni produttive – lotte, conquiste, profitti e dinamismo sociale – si sono ridotte drammaticamente, con un calo verticale dell’occupazione. La globalizzazione – con l’impressionante trasferimento di attività produttive in Asia – è stata oggettivamente una sciagura per il Michigan. Lo stato – cuore del Midwest operaio, imperniato sull’industria automobilistica - sta ancora attraversando una crisi epocale.

 Nell’epoca dei grandi colossi dell’economia globale come sopravvive la working class?

Come dicevo, Detroit e altre città sedi dell’industria automobilistica, come Flint e Saginaw, sono oggi in preda alla disoccupazione e al malcontento. Per decenni la General Motors è stata la più grande azienda della nazione per numero di addetti. Ora il primato, con numeri largamente inferiori, spetta a McDonald’s e alle aziende della Silicon Valley. La working class esiste ovviamente ancora, ma ha perso di importanza mediatica e politica. Nel 2024 è stata registrata una ripresa delle lotte (appoggiate totalmente da Biden), ma le cronache sindacali si rivolgono molto spesso a soggetti diversi dalle tute blu: i fattorini di Amazon, i portuali, i lavoratori delle pulizie di Las Vegas, gli sceneggiatori di Hollywood.

Manca meno di un mese al voto che eleggerà il nuovo presidente Usa, e recentemente Donald Trump si è recato proprio in Michigan, incassando un po’ a sorpresa l’endorsement di un sindaco musulmano di un cittadina dello Stato, che quattro anni fa scelse Joe Biden. Potrebbe essere il segnale di un cambio di tendenza?

Nel Michigan esiste la più alta concentrazione di cittadini mussulmani negli USA. Si tratta dei discendenti di immigrati del Medio Oriente che trovavano lavoro nelle fabbriche di Henry Ford a Dearborn. Il secondo racconto del libro si impernia su questi aspetti. Il Michigan è uno swing state, cruciale per il voto nazionale. Alcune decine di migliaia di voti possono cambiare le sorti della competizione elettorale. Gli elettori mussulmani hanno espresso insoddisfazione per l’appoggio totale di Joe Biden e di Kamala Harris a Israele nella guerra in medio oriente. Potrebbe essere un cambio di tendenza, ma è verosimile che l’elettorato mussulmano mantenga, seppur di scarsa misura, l’orientamento democratico.

Possiamo azzardare una previsione sull’esito del voto del prossimo 5 novembre?

Rispondo in compagnia della sfera di cristallo, tanto sappiamo che le variabili da tenere in considerazione sono infinite. Vincerà Kamala Harris.