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La storia del lavoro deve oggi coltivare un campo assai vasto di storie di vari oggetti di studio: l’economia e la società, il movimento operaio e sindacale, le relazioni industriali, l’impresa, l’organizzazione del lavoro, i sistemi previdenziali, l’intervento istituzionale nella regolazione del mercato del lavoro, con sconfinamenti, dunque, nel diritto del lavoro e nel sistema di istruzione e formazione professionale.
Queste dimensioni, necessariamente intrecciate e solo parzialmente separate da labili confini, vanno considerate congiuntamente per far compiere un salto di qualità alla storia del lavoro e dei movimenti sociali connessi, in una fase propizia di notevole ripresa di interesse, che ha portato al superamento di un periodo di crisi e ghettizzazione. La crisi è stata il prodotto di una serie di fenomeni che negli anni Ottanta del secolo scorso hanno investito tutti i paesi economicamente avanzati: un forte calo di attenzione per il mondo operaio che ha interessato, in una circolarità di influenze reciproche, i mezzi di comunicazione di massa e il pubblico colto, il mondo accademico e l’editoria, riflettendosi in una diminuzione degli studi. Delle due cause la seconda è stata decisamente preminente nel caso italiano: i paesi del “socialismo reale” avevano infatti cessato da tempo di fungere da punto di riferimento per gran parte della sinistra in Italia, mentre la giovane generazione di studiosi che negli anni Settanta avevano fornito nuove leve alla storia del lavoro era stata affascinata dal protagonismo operaio nel ciclo di lotte apertosi alla fine del decennio precedente.
Nel nostro Paese lo spartiacque di maggior portata non è stato dunque il 1989, indicato dallo studioso tedesco Jürgen Kocka, in prevalente riferimento al caso tedesco, come il momento forte della crisi e allo stesso tempo come l’apertura di nuove opportunità e prospettive. L’eccezionale durata della fase di alta conflittualità sociale nella penisola - i tredici anni che trascorrono dal 1968 al 1980 compreso, ma con un avvio del ciclo che va anticipato alla lotta degli elettromeccanici milanesi del 1960 - ha avuto la sua brusca conclusione nell’autunno del 1980 con la sconfitta della “lotta dei 35 giorni” alla Fiat, che ha segnato una svolta epocale e la fine della “centralità operaia”.
Non si è trattato solo della disillusione provocata dalla sconfitta, ma della perdita di peso sociale degli operai delle grandi e medie fabbriche. La fine della centralità “politica” va considerata in rapporto alla fine della centralità “sociale” degli operai, e quest’ultima è stata la conseguenza dei processi di decentramento e ristrutturazione industriale e della crescente terziarizzazione dell’occupazione. Del resto, la classe operaia in Italia ha raggiunto la propria maturità relativamente tardi, quando il modello fordista che l’aveva prodotta era ormai al suo canto del cigno.
Accanto a questi fattori strutturali vanno considerate le influenze politico-culturali: l’affermazione del neoliberismo ha esercitato la sua influenza su larghe componenti politico-sociali, con la promessa di crescita generalizzata della ricchezza attraverso la liberazione del mercato dalle pastoie di burocrazie pubbliche inefficienti e di sistemi di protezione sociale costosi e promotori di indolenza. L’obiettivo primo delle politiche economiche, dapprima rappresentato dalla lotta alla disoccupazione, è divenuto, con il thatcherismo, la lotta all’inflazione, perseguita a costo di allargare la disoccupazione, in un quadro di esaltazione dell’individualismo. La globalizzazione, intensificatasi negli anni Novanta, ha dal canto suo messo in difficoltà i lavoratori dei paesi avanzati a fronte del basso costo del lavoro in quelli emergenti.
La consapevolezza che la svalorizzazione del lavoro è all’origine della peggiore crisi dell’età contemporanea, che rischia di durare assai più di quella del 1929, rappresenta oggi un fattore potente di ripresa di interesse che sta portando al superamento della lunga fase di difficoltà della storia del lavoro. Crescono infatti oggi, anche se spesso ai margini di un sistema universitario che le precarizza, schiere di giovani ricercatori che producono contributi di grande spessore, che si muovono in faticose peregrinazioni. Ne sono segno la nascita in Italia, a fine 2012, della Società italiana di storia del lavoro (Sislav) e le iniziative tese a costruire associazioni e reti europee e internazionali di storici del lavoro.
La nuova stagione di studi che si sta aprendo fonda il proprio approccio sull’innovazione metodologica che è emersa nella crisi della storiografia militante degli anni Settanta. Questa, a sua volta, aveva innovato una precedente stagione di studi di storia del movimento operaio la quale, piuttosto che dalla pionieristica storia del lavoro di Luigi Dal Pane, era influenzata dall’idealismo storicista che alimentava un’impostazione etico-politica, producendo lavori incentrati sullo studio del pensiero dei dirigenti, dei massimi protagonisti di partiti e sindacati; spesso, in quei lavori, l’intento era di andare alla ricerca dei fili rossi delle tradizioni militanti e delle vicende che avevano portato all’affermazione o allo smarrimento della “linea giusta”.
Negli anni Settanta prevalsero invece, come oggetto di studio, i gruppi sociali e le lotte dei lavoratori, in una prospettiva “dal basso”: sull’onda dell’accesa conflittualità e delle mobilitazioni in atto, in un’ottica prevalentemente ideologica, si sottolineava la spontaneità e l’autonomia conflittuale della classe operaia; il tema della formazione della classe operaia veniva declinato tutto all’interno del luogo di lavoro, in quanto nella fabbrica, come centro focale dell’organizzazione capitalistica del lavoro, si formava la coscienza di classe e si sviluppava la lotta di classe.
Rispetto all’approccio “culturalista” di Edward P. Thompson, l’accento era posto in misura pressoché esclusiva sui fattori strutturali, mentre il “making” soggettivo della classe era desunto come conseguenza diretta dei rapporti di sfruttamento nel lavoro e dimostrato dai comportamenti conflittuali nei cicli di scioperi. La crisi di questo approccio, connesso alla caduta della conflittualità, favorì l’apertura delle prospettive di ricerca e l’affinamento degli strumenti d’indagine, grazie anche al ricorso a fonti nuove e assai diversificate, come le fonti orali, che hanno reso più critica e più realistica la storia della classe operaia. La storia orale ha discusso il tema della cultura delle classi subalterne e prodotto indagini sulla famiglia, sui quartieri operai, sulla percezione degli spazi fisici e sociali, sul senso di appartenenza territoriale, sulla vita quotidiana.
Sono così state formulate nuove domande e nuove ipotesi sulle dinamiche dei processi storici nel mondo operaio, suscettibili di contribuire alla miglior comprensione dei mutamenti oggi in atto; un parallelismo sembra infatti delinearsi tra la prima industrializzazione e l’affacciarsi della società post-industriale: con la flessibilità del lavoro e la crisi del welfare pare di assistere, pur con tutte le evidenti distanze, al ritorno per le giovani generazioni di alcune delle condizioni di instabilità occupazionale e di mancanza di sicurezza sociale che hanno caratterizzato la nascita del proletariato industriale tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Tra i fattori di crisi della storia del movimento operaio degli anni Settanta va annoverata anche la nascita, alla fine di quel decennio, di nuovi movimenti sociali, quello ambientalista e il movimento delle donne in particolare, che hanno messo in discussione la preminenza dell’appartenenza di classe nelle contraddizioni e nei conflitti sociali. L’impegno e l’interesse di molti giovani studiosi e studiose si è rivolto a campi diversi da quelli tradizionali, in particolare verso la storia delle donne, che portava alla luce un soggetto storico oscurato “aggiungendolo” ai soggetti già riconosciuti, e poi, con un ulteriore sviluppo, la storia di genere, con la quale si rimette in discussione l’insieme della ricostruzione storica, per le diverse modalità e prospettive con cui i generi vivono la storia.
La sfida posta dall’ottica di genere nel campo della storia del movimento operaio ha indotto a riflettere sui tratti culturali di un movimento prevalentemente maschile; ha stimolato a considerare, nei processi di formazione del proletariato industriale, i soggetti “deboli” dell’offerta di lavoro, che non per questo costituivano una componente marginale o numericamente irrilevante, quelli che non avevano occupazioni stabili e a tempo pieno, o le avevano per un periodo limitato del proprio corso di vita; ha sottolineato l’esigenza di studiare i bilanci familiari, il lavoro domestico, le piccole attività a tempo parziale che servivano non solo a integrare i guadagni ma spesso costituivano un pilastro del bilancio familiare; l’attenzione al lavoro a domicilio ha portato a sottolineare le gravi lacune delle analisi sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro incentrate sui dati dei censimenti: anche nelle città che nel secondo dopoguerra imboccavano con decisione la strada della produzione fordista, le donne, anziché essere relegate nel ruolo di casalinghe, continuavano numerose a offrire il proprio importante contributo all’economia urbana, attraverso le forme disperse del lavoro di domestiche e sarte, poco visibili e difficilmente registrate dai censimenti.
Schematizzando molto, si può sostenere che la storiografia del movimento operaio e del lavoro in Italia può essere suddivisa in tre fasi storiche. Il principale prodotto della storia etico-politica è stato la ricostruzione delle culture e delle strategie delle organizzazioni sindacali e politiche. Gli studi degli anni Settanta hanno offerto quadri della composizione per sesso ed età delle maestranze, la suddivisione in categorie e i livelli di qualificazione dei lavoratori, i differenziali salariali e la struttura della retribuzione in relazione al cottimo, l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro: ciò che là si indagava erano le condizioni di lavoro in rapporto ai comportamenti operai, per scoprire quali erano i fattori di unità e di forza all’origine della capacità di mobilitazione.
L’approccio successivo, a partire dagli anni Ottanta, si è ispirato all’antropologia, all’individualismo metodologico nello studio dei gruppi di lavoratori, ora considerati nelle loro articolazioni comunitarie e micro-comunitarie. Il centro dell’attenzione si spostava dalle strategie collettive, ovvero dalle lotte e dalle organizzazioni, alle strategie familiari/individuali, dalla conflittualità alla acquiescenza (in relazione al periodo fascista), dai grandi eventi eroici della storia del movimento operaio alla vita quotidiana, dalla fabbrica alle comunità territoriali e alle reti di relazioni sociali. In quegli anni, scrive Nicola Gallerano, «gran parte dei giovani storici italiani si sono addormentati storici politici e si sono svegliati storici sociali».
Dalla svolta, notevolmente influenzata anche dalla microstoria, sono derivate lenti capaci di cogliere la complessità della realtà sociale, delle mentalità e dei comportamenti. Tuttavia, la storia sociale non ha saputo rapportarsi con la politica, né mettere in relazione le strategie individuali e familiari con le strategie collettive: queste ultime, se pure richiedevano interpretazioni meno schematiche di quelle offerte dalla storiografia militante degli anni dell’alta conflittualità, erano nondimeno reali e si concretizzavano nelle organizzazioni mutualistiche, cooperative, sindacali e partitiche.
Solo l’intrecciarsi delle tre impostazioni può offrire l’opportunità di ricostruire quadri interpretativi delle determinanti del mutamento sociale e culturale che si ripercuote sui comportamenti sociali e politici. La formazione della classe operaia rimanda alla storia dell’industria e del processo di industrializzazione; i conflitti di lavoro allo studio delle politiche sindacali, non solo di parte operaia ma anche imprenditoriale, con le politiche variamente paternalistiche di gestione delle maestranze e, in senso più ampio, le politiche imprenditoriali di gestione dell’impresa; i conflitti di lavoro e la questione sociale rimandano al ruolo dello Stato; lo studio del proletariato urbano-industriale e dei quartieri operai richiama la storia delle città, dello sviluppo urbano, dei movimenti migratori; l’analisi delle condizioni di vita si allarga dai livelli salariali ai consumi, all’alimentazione e alla salute; la cultura operaia, oltre alle analisi di stampo antropologico, va indagata in riferimento ai livelli di alfabetizzazione e alla capacità di lettura, ai consumi culturali e all’uso del tempo libero.
Nuovo e poco praticato in Italia, anche per obiettive difficoltà pratiche, è infine l’approccio della global labour history, che critica la demarcazione nazionale degli studi. Al loro sorgere, le nuove impostazioni metodologiche tendono a suscitare non poche e a volte accese discussioni tra “scuole”. Tuttavia, nella storia del lavoro, sin dagli anni Novanta sono prevalse in Italia inclinazioni a riconoscere gli elementi di validità contenuti nei vari approcci. Sono così nate impostazioni attente alla multidimensionalità: non pochi studi, specie quelli locali, utilizzano contemporaneamente fonti statistiche e fonti orali, studiano la fabbrica (come luogo dei rapporti di lavoro, dell’organizzazione del lavoro, delle strategie delle organizzazioni) assieme al territorio (come luogo della cultura materiale, delle relazioni familiari e sociali, dei percorsi migratori e dei legami con le comunità di origine, della mobilità residenziale, occupazionale e sociale); l’approccio culturalista che analizza le pratiche discorsive si salda alle descrizioni su base quantitativa del contesto in cui i discorsi sono prodotti. Nell’analisi dei sistemi economici locali l’industria viene studiata unitamente all’agricoltura, per la numerosità e persistenza di figure miste di lavoratori agricoli e industriali, in un sistema diffuso di pluriattività duro a scomparire persino negli ambienti urbani industriali. Anche gli studi incentrati sulle organizzazioni del movimento operaio hanno recepito i risultati degli altri indirizzi e prodotto lavori di vasto respiro, arrivando a configurare una sorta di storia sociale delle organizzazioni.
I risultati delle tre fasi storiografiche inizialmente richiamate offrono ormai salde acquisizioni relative a questi fenomeni, grazie a congrue messi di studi che hanno potuto mettere in evidenza modelli ricorrenti. La ricerca sulla storia del lavoro, ha però ancora bisogno di nuove domande, di nuove ottiche, di ampliare i campi di indagine.
Francescopaolo Palaia è ricercatore presso la Fondazione Giuseppe Di Vittorio e responsabile politiche della memoria dello Spi Cgil