Arrusi. Una di quelle parole che la dominazione araba aveva lasciato in eredità alla Sicilia, e che assunse a un certo punto un significato preciso, e doloroso. Durante il regime fascista, centinaia di uomini omosessuali italiani - principalmente catanesi – furono confinati sull’Isola di San Domino, alle Tremiti. La fotografa Luana Rigolli ha recuperato, attraverso un’attenta ricerca presso Gli Archivi Centrali di Stato, immagini e testimonianze degli “arrusi” confinati. In occasione della Settimana della Memoria, Arcigay Roma e Casa della Memoria e della Storia ospitano la mostra L’isola degli arrusi, gratuita e visitabile fino al 21 febbraio.

Era una storia che conosceva già o ci è “inciampata sopra” e ha deciso di lavorarci
Non conoscevo questa storia, perché di certo non si studia sui libri di scuola. O almeno, non si studiava fino a vent’anni fa, quando io ero al liceo. Nessuno ci aveva mai parlato delle persecuzioni nei confronti degli omosessuali durante il fascismo. E in generale si approfondiva poco la parte relativa alle persecuzioni di alcune minoranze, come i rom. Prima di questo lavoro fotografico, avevo fatto diverse ricerche che riguardavano le isole, ma anche le storie del ‘900. Sono due cose che mi appassionano, mi piace andare nelle librerie o nelle biblioteche, sfogliare i libri di storia. È così che un giorno mi sono imbattuta in un libro, La città e l'isola. Omosessuali al confino nell'Italia fascista, di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio. È stato come avere un’illuminazione, ho capito che volevo occuparmi di questa storia. Nel libro, i due autori ricostruiscono la storia dei quarantacinque catanesi che vennero confinati alle Isole Tremiti. Mi sono messa sulle loro tracce, sono andata all’Archivio Centrale di Stato, dove ho trovato tutte le loro cartelle biografiche, i verbali di arresto allegati, le foto delle visite mediche a cui erano sottoposti quando venivano arrestati, per attestarne l'omosessualità. E ancora, le lettere che scrivevano dal confino ai loro parenti, o per provare a chiedere la grazia. È come se li avessi conosciuti. Ho ricostruito un po' la loro vita e sono ho trovato delle informazioni che poi mi sono servite per fotografare a Catania i luoghi che frequentavano prima di essere arrestati.

dalla mostra L'isola degli arrusi

In questa ricerca su materiali di archivio, come l’ha guidata il suo occhio di fotografa? Che cosa l’ha spinta a cercare di più?
In una prima fase, quando ho avuto accesso ai documenti, perché non avevo ancora ben chiaro come avrei sviluppato nel dettaglio il progetto del libro e della mostra. Le lettere, i documenti, ma soprattutto le foto segnaletiche mi interessavano molto, e su questi materiali ho fatto un close up, per poterne cogliere tutti i dettagli al meglio. A Catania, invece, ho cercato di catturare i luoghi indicati nei documenti che avevo consultato, soprattutto di notte. Perché era soprattutto col buio che queste persone potevano permettersi di vedersi, di nascosto, di frequentarsi, correndo meno rischi di venire arrestati. Ho cercato di fotografare i luoghi della città, per esempio il parco di Villa Bellini, in modo che rendessero il più possibile quel tipo di clima, di contesto. Sull’isola di San Domino, invece, dove erano confinati, ho fotografato di giorno, perché lì erano liberi di muoversi, se non altro perché erano obbligati a lavorare. Di notte, al contrario, erano detenuti.

Oggi l’omosessualità, così come l’identità e l’orientamento sessuali, non sono più un tabù come fino a una ventina di anni fa. Eppure persecuzioni e discriminazioni persistono, in maniera più o meno celata. Spesso con l’ausilio dei social, oltre che con aggressioni fisiche.
Infatti ho deciso di fare questo lavoro sia per il suo valore storico che per quello sincronico. Era importante per me riportare alla luce una storia sepolta, ma anche sottolinearne l’attualità. Per fortuna non siamo più nel ’39, non esiste più il confino per gli omosessuali. Ma mi pare che siamo ancora ben lontani dall’accettare il fatto che la diversità sia la vera normalità. L’essere ognuno quello che si è, senza etichette. E allora il senso del mio lavoro è anche quello di richiamare l’attenzione sui rischi che ancora corriamo nel tornare indietro, all’Isola degli Arrusi.

Arrusi, appunto. Ha scelto di usare nel titolo della mostra una parola che ha un significato molto preciso, che gli stessi confinati poi cominciarono a usare. Quasi a sottolineare una identificazione forzata, ma loro malgrado interiorizzata.
Sì, viene dall’arabo e in origine significava ragazzo. Poi come spesso capita con le parole prestate da un’altra lingua, ha assunto un altro senso, stavolta discriminatorio: veniva usata per indicare gli omosessuali passivi, per distinguerli da quelli attivi, che invece venivano considerati ancora “uomini”. Una brutta parola, che però mi sono permessa di usare perché l’aveva usata, prima di me, uno degli intervistati nel libro di Goretti e Giartosio, per autodefinirsi: “Noi arrusi”. Mi sono sentita allora di avere il permesso di usarla.

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