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Tra le immagini simbolo dei giorni del Natale 2022 rimarrà quella che ritrae la lunga coda di persone nel cuore di Milano, davanti la sede della Onlus Pane Quotidiano, alla quale si sono rivolti in circa 8.000 per un pasto caldo, o un gioco da mettere sotto l’albero per i propri figli: un numero aumentato di oltre il 20% rispetto allo scorso anno.
Per tentare di capire meglio, andando al fondo della questione, di certo aiuta la lettura del piccolo volume pubblicato nei Saggi Tascabili Laterza dal titolo Lavorare non basta (pp.150, euro 14), scritto da Marianna Filandri, titolare della cattedra di Sociologia delle disuguaglianze economiche e sociali presso l’Università di Torino.
Sì, perché dallo studio della professoressa Filandri emerge in maniera piuttosto chiara come il livello della povertà in Italia, oramai tra i più elevati in Europa, contempli non soltanto coloro che non hanno un’occupazione e dunque un reddito attraverso cui vivere, ma anche chi un lavoro ce l’ha, più o meno continuativo, più o meno sicuro. Da qui il motivo per cui la fila davanti la mensa dei poveri cresce, e nel futuro sembri destinata ad aumentare ancora.
Le cause del fenomeno dei cosiddetti working poor sono molte, legate tra loro da vari aspetti economici, politici e sociali; e come sempre accade sono determinate scelte (o non scelte) a fare la differenza, a creare disuguaglianze, ad alimentare il divario tra ricchi, sempre più ricchi, e poveri, sempre più poveri. Già nella sua introduzione l’autrice individua uno degli elementi più rilevanti, approfondito in alcune pagine successive: il tema del sistema di tassazione da parte dello Stato dei redditi da patrimonio, di molto inferiore a quella dei redditi da lavoro. Scelta definita “poco razionale” per tre motivazioni:
“La prima è che non si premia il merito e quindi si ha una società meno efficiente. La seconda è che le rendite immobiliari o finanziarie sono improduttive, a differenza dell’attività lavorativa che per definizione rappresenta un’attività riconosciuta e volta alla produzione di beni o servizi in cambio di una retribuzione. La terza è che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze con conseguenze negative per tutta la società”.
Dentro tutto questo confluiscono mille altre questioni da tenere in considerazione, che nel libro vengono affrontate descrivendo situazioni di lavoratori e lavoratrici comuni, di famiglie mono-reddito o a doppio reddito, con uno o più figli, nelle città o in provincia. alternate a dati Istat puntuali quanto impietosi, per fornire nel complesso un quadro esaustivo e comprensibile anche ai meno esperti in materia: una materia che riguarda tutti perché il lettore, a proprio modo, dentro qualche statistica, più o meno indicativa, si ritroverà sicuramente.
C’è poi un ultimo capitolo, dal titolo “Che cosa può fare lo Stato”, che torna al nostro punto di partenza, e in cui si scrive:
“Focalizzandoci sulle politiche del lavoro ci sono due linee di azioni che si possono attuare per contrastare il problema: concentrarsi sulla scarsità dell’occupazione in termini di quantità del lavoro - più opportunità occupazionali - e intervenire sulla qualità del lavoro - occupazioni ben retribuite e stabili”.
Niente di nuovo, si potrà obiettare: ma niente di quanto proposto dalle politiche del lavoro in questo nuovo secolo, dunque ormai da oltre vent’anni, sembra orientarsi concretamente verso questa direzione.
Le drammatiche conseguenze, ogni giorno di più, sono davanti ai nostri occhi.