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“Cosa devo a Di Vittorio? - diceva il 15 novembre 1981 su l’Espresso Luciano Lama - Prima di tutto i ferri di un mestiere non facile. Il coraggio di affrontare la realtà, anche quella che non ti piace. Lo sforzo costante di non appagarsi della superficie, ma di vedere quello che c’è sotto le cose. Infine, l’abitudine a pensarci su, a non essere frettoloso nei giudizi, ma poi ad avere il coraggio di esprimerli anche controcorrente”.
Il rapporto tra Lama e Giuseppe Di Vittorio è un rapporto molto speciale, nato nel 1945 quando il giovanissimo Luciano partecipa - in qualità di segretario della Camera del lavoro di Forlì - al Congresso nazionale della Cgil a Napoli (“Ricordo il freddo gelido della sala dove ci riunimmo - racconterà Luciano nel 1979 a Panorama - Venimmo in due: Nino Laghi e io. Altri due compagni vennero da Bologna e al ritorno, nel ripassare le linee, furono uccisi”). Il successivo Congresso di Firenze, il primo della Cgil dopo la Liberazione, si svolge dal 1° al 7 giugno 1947.
“Di Vittorio gioca con sorprendente spregiudicatezza la sua carta - scriveva Giancarlo Feliziani in Razza di comunista. La vita di Luciano Lama (Editori Riuniti, 2009) - In queste giornate di lavoro avvicina a più riprese Luciano Lama, giovanissimo e ignoto segretario di Camera del lavoro, lo stimola, lo lascia parlare, lo ascolta, presta attenzione alle sue parole, ma in realtà ha già deciso: gli proporrà di diventare vice segretario della Cgil. In sostanza, il suo braccio destro. Punta tutto su quel giovane romagnolo dalla complessione fisica robusta, dal gusto per la polemica, dalla franchezza che spesso sfiora l’irriverenza”.
“Non l’ho mai saputo il perché… l’ho chiesto a Togliatti, a Luigi Longo… l’ho chiesto a Di Vittorio. E ognuno di questi mi ha risposto così: 'Ma che ti interessa di saperlo… l’importante è che lo sei diventato!'” dirà Lama anni dopo in una intervista alla tv della Svizzera italiana.
“Tra Lama e Di Vittorio si instaura un rapporto particolarissimo - scrive sempre Feliziani - per Lama, Di Vittorio è un maestro di vita, per certi versi un secondo padre. Ha stima incondizionata e grande tenerezza per quel dirigente straordinario in grado di guidare scioperi, indirizzare congressi ma anche capace di addormentarsi improvvisamente nel bel mezzo di una riunione. Per Di Vittorio, uomo appassionato e dalla forte personalità, autonomo nel pensiero e non condizionato da vincoli di appartenenza politica, un uomo schietto che ha dedicato la vita alla causa del lavoro, mai disposto ad accettare ordini, neppure se arrivano dalle Botteghe Oscure o da Togliatti in persona, per Di Vittorio quel giovane con la faccia aperta ai dubbi rappresenta il futuro, la speranza, l’entusiasmo, l’intelligenza politica. Ma quel giovane disinvolto e laureato in Scienze sociali rappresenta anche ciò che lui, bracciante poverissimo, avrebbe voluto ma non è riuscito a essere. Quei due uomini diventano inseparabili: dove c’è Di Vittorio, un passo indietro, c’è sempre anche Luciano Lama che giorno dopo giorno va assumendo nel sindacato un ruolo di sempre maggior spicco. La sua ascesa irresistibile è nelle cose, nell’organizzazione quotidiana, nella progettualità della Cgil”.
Il giovane Luciano è al fianco di Di Vittorio ai funerali delle vittime dell’eccidio di Modena del 1950 e compare sempre più spesso al suo fianco nei viaggi ufficiali tanto che, si racconta, a volte veniva scambiato per il figlio.
Quando Scelba gli ritira il passaporto nella primavera del 1952, impedendo a Di Vittorio di recarsi a New York al Consiglio economico e sociale dell’Onu come presidente della Federazione sindacale mondiale ed i parlamentari della Cgil protestano con il presidente della Camera, è Lama che tiene i contatti con Di Vittorio.
E’ Luciano Lama a pronunciare al Comitato direttivo del 3 dicembre 1957 l’orazione funebre di Di Vittorio ed è sempre Lama - non Novella, segretario generale - a commemorare il segretario alla presenza di Baldina, Anita e Vindice ad Ariccia il 3 novembre 1967 a dieci anni dalla morte (è in quella occasione che il Centro studi e formazione sindacale della Cgil viene ufficialmente inaugurato).
“La Cgil mi ha fatto come sono - dirà lasciando la Confederazione ‘il signor Cgil’ nel 1986 - mi ha dato le ragioni più profonde e grandi di vita e di lotta. Mi ha dato una cultura, un’etica, una educazione sociale e politica divenute parte insondabile della mia persona. E di questa scuola straordinaria devo ringraziare voi tutti, e quelli che prima di voi ho avuto la ventura di avere come compagni e come dirigenti. Di Vittorio, Santi, Novella e tanti altri. Ci sono dei momenti, e questo per me è è uno di quelli, nei quali si è indotti a ripensare al proprio passato. Sono ritornato con la memoria a quel lontano 9 novembre 1944, quando armi alla mano, ci impadronimmo a Forlì della sede dei sindacati fascisti e inopinatamente io venivo nominato segretario della Camera del lavoro. C’erano in me ancora confuse speranze di una radicale e drastica resa dei conti con i responsabili del fascismo e della guerra, la convinzione che quella fase unitaria sarebbe presto terminata e avremmo potuto, d’un colpo solo, realizzare quei valori di giustizia, di libertà, di pace tanto agognati e discussi nelle lunghe giornate di vita partigiana. Ma poi venne la grande scoperta del sindacato e dei suoi protagonisti, Di Vittorio, Grandi, Lizzadri nella gelida sala del Museo di Napoli in quel febbraio del 1945. A poco a poco, all’erronea illusione di un salto repentino impossibile e pericoloso, si andava sostituendo nella mia coscienza che la costruzione di una società davvero diversa e più giusta non può essere per noi che una conquista collettiva, faticosa, fatta di tappe successive da superare giorno per giorno, insieme con la gente e che ogni modello di città del sole è, oltre che utopistico, parziale e transeunte perché anche i lavoratori e gli uomini cambiano mano a mano che procedono sulla via della loro emancipazione. Ciò che resta intatto sono quei valori essenziali di giustizia, di libertà, di progresso sociale, culturale, umano che il mondo del lavoro porta con sé”.