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È il 28 febbraio 1986. A Roma si apre l'XI Congresso nazionale della Cgil. L'ultimo per Luciano Lama che ha guidato la Confederazione per sedici anni. "Ci sono radici che non si possono sradicare. Voi per me siete quella radice" dice a compagne e compagni che lo ascoltano. Li ringrazia per avergli "offerto una vita piena, una causa grande, una ragione giusta".
Ma soprattutto li incita: "Non abbiate mai paura delle novità, non rifiutate la realtà perché vi presenta incognite nuove e non corrisponde a schemi tradizionali, comodi ma ingannevoli, non rinunciate alle vostre idee almeno finché non ne riconoscete altre migliori!”
Il discorso di addio di Luciano Lama
Vi prego di aiutarmi nell’affrontare questa non facile prova - dirà - non facile anche se decisa e resa pubblica da lungo tempo, con una scelta di ragione necessaria e giusta. Ma ci sono dei frangenti della nostra vita nei quali il dominio della ragione rischia di cedere al tumulto dei sentimenti. Non c’è in me, dopo quarantadue anni di lavoro nella Cgil e sedici nella funzione di segretario generale, nessuna amarezza né rimpianto, se non la nostalgia dei giovani anni, il ricordo struggente di tanti compagni con i quali ho condiviso le ansie, le vittorie, le delusioni, le alterne vicende della Cgil, organizzazione di lavoratori che sono uomini che vivono in una società stimolante ma mobile e inquieta come la nostra. Cari compagni, non voglio ingannarvi neppure ora. Quello che non doveva essere e non è un trauma per l’organizzazione, è certamente una scossa per me, al momento del distacco. La Cgil mi ha fatto come sono, mi ha dato le ragioni più profonde e grandi di vita e di lotta, mi ha dato una cultura, un’etica, una educazione sociale e politica divenute parte inscindibile della mia persona. E di questa scuola straordinaria devo ringraziare voi tutti, e quelli che prima di voi ho avuto la ventura di avere come compagni e come dirigenti: Di Vittorio, Santi, Novella e tanti altri.
Ci sono dei momenti, e questo è per me uno di questi, nei quali si è indotti a ripensare al proprio passato. Sono ritornato con la memoria a quel lontano 9 novembre 1944, quando, armi alla mano, ci impadronimmo a Forlì della sede dei sindacati fascisti e inopinatamente io venivo nominato segretario della Camera del lavoro. C’erano in me ancora confuse speranze di una radicale e drastica resa dei conti con i responsabili del fascismo e della guerra, la convinzione che quella fase unitaria sarebbe presto terminata e avremmo potuto, d’un colpo solo, realizzare quei valori di giustizia, di libertà, di pace tanto agognati e discussi nelle lunghe giornate di vita partigiana. Ma poi venne la grande scoperta del sindacato e dei suoi protagonisti, Di Vittorio, Grandi, Lizzadri, nella gelida sala del Museo di Napoli in quel febbraio del 1945.
A poco a poco, all’erronea illusione di un salto repentino impossibile e pericoloso, si andava sostituendo nella mia coscienza la convinzione che la costruzione di una società davvero diversa e più giusta non può essere per noi che una conquista collettiva, faticosa, fatta di tappe successive da superare giorno per giorno insieme con la gente e che ogni modello di città del sole è oltre che utopistico, parziale e transeunte perché anche i lavoratori e gli uomini cambiano di mano in mano che procedono sulla via della loro emancipazione. Ciò che resta intatto sono quei valori essenziali di giustizia, di libertà, di progresso sociale, culturale, umano che il mondo del lavoro porta con sé.
Ma perché questi valori si affermino c’è una prima condizione da rispettare: l’unità, sottoposta a tante e difficili prove, eppure sempre indispensabile per chi non si appaghi di affidare fatalisticamente al sole dell’avvenire, di un avvenire che di per sé non verrà mai, le proprie speranze di cambiamento.
Non può dimenticare, chi lo ha vissuto e magari da principio lo considerò come una liberazione da troppi condizionamenti, il periodo duro della divisione tra la fine degli anni quaranta e il decennio successivo che vide l’isolamento della Cgil, gli eccidi di lavoratori, le rappresaglie padronali, i più di cinquanta quadri nostri, dirigenti coraggiosi dei contadini del feudo, trucidati dai fucili a canne mozze o dai nodi scorsoi dei killer della mafia. È di quel tempo l’attività di un certo signor Luigi Cavallo, ve lo ricordate, voi vecchi? Allora coccolato e blandito, da tanti potenti del denaro e della politica, oggi in carcere, estradato in Italia perché complice di Sindona, provocatore, organizzatore di sindacati gialli e persecutore dei sindacalisti della Cgil e dei militanti di sinistra specie alla Fiat. Erano gli anni dei reparti confino, dei ricatti nelle elezioni delle commissioni interne che videro restringersi la nostra forza organizzata e, contemporaneamente, videro l’impavida tenuta del quadro dirigente, di tanti militanti di base perseguitati ma non piegati.
Quelle prove crudeli, dolorose mi fecero riflettere sul significato profondo di concetti come l’unità, la coerenza, il coraggio di riconoscere i propri errori per correggerli, il rifiuto delle due verità. Fu quello il tempo in cui si diffusero sentimenti profondi di solidarietà, si cementarono molte amicizie e alcune, anche, si spezzarono.
Poi, nella seconda metà degli anni cinquanta, operammo la svolta delle nostre politiche, anche allora combattuti tra un futuro che già si imponeva e un passato che era dentro di noi, si riannodarono con grande stento alcuni fili di unità, fu cacciato il governo Tambroni appoggiato dai fascisti, venne il Natale unitario del ‘60 degli elettromeccanici in piazza del Duomo a Milano. Ciò che è avvenuto dopo, dal ‘68 in poi, è esperienza vissuta o nota a molti di voi, con le sue luci con le sue ombre, con quelle avanzate e quegli arretramenti che segnano sempre nella storia anche la vicenda sindacale. La Cgil esagererebbe con l’autocritica? C’è forse chi riconosce i propri errori davanti al mondo, e c’è chi li riconosce davanti all’Altissimo.
Negli ultimi anni si sono addensate le esperienze forse più inquietanti delle quali non abbiamo fatto certamente mistero.
Il tessuto unitario si è venuto progressivamente lacerando, si è appannato fin quasi a dissolversi, quella strategia di cambiamento che rende credibile il ruolo politico del sindacato, è diventata più faticosa e problematica la conquista del consenso. Il nostro congresso, per un impegno univoco dei gruppi dirigenti largamente confermato dall’apporto dei lavoratori, pone ora le premesse per il superamento degli errori e delle difficoltà di questo recente passato.
Siamo solo all’inizio di una salita forse lunga e faticosa, in cima alla quale, però, si ritorna «a riveder le stelle». Le stelle del successo, della partecipazione e della fiducia della grande massa dei lavoratori. Sta dietro di noi la fase più ingrata, la discesa che qualcuno temeva irreversibile, definitiva. Questa considerazione mi conforta, nel momento in cui vi lascio!
Compagni, non abbiate paura delle novità, non rifiutate la realtà perché vi presenta incognite nuove e non corrisponde a schemi tradizionali, comodi ma ingannevoli, non rinunciate alle vostre idee almeno finché non ne riconoscete altre migliori! E in quel momento ditelo! Perché un dirigente sindacale è un uomo come gli altri e se in quel momento gli altri lo riconosceranno capiranno anche gli errori. So bene che questo metodo comporta anche il rischio di pagare dei prezzi, ma non c’è prezzo più alto che la verità: ma in una grande organizzazione, pluralistica e complessa nella ideologia e nella condizione culturale e sociale dei suoi stessi aderenti, il libero confronto, il coraggio delle proprie posizioni sono lievito indispensabile, un contributo al miglioramento delle politiche, alla ricerca collettiva della strada giusta. Io stesso nei momenti di scelta ho fatto molto discutere, anche in preparazione di questo congresso, e di ciò mi si è talvolta mosso rimprovero. Ma il mondo del lavoro non è un corpo separato, esso è parte essenziale della società, una forza popolare che esprime volontà, alimenta speranze, plasma coscienze. E tanto più il nostro disegno diventa ambizioso e il cambiare riguarda noi e l’intera società, tanto più dobbiamo sentire su di noi incombere l’obbligo di essere chiari con noi e con gli altri, anche per conquistare altri ceti e forze alle nostre idee, ai nostri programmi. Innalzare intorno a noi, in nome di una asettica purezza, una sorta di cordone sanitario significherebbe condannare alla sterilità ogni sforzo di cambiamento, e una vera politica alternativa di sviluppo che garantisca lavoro ai giovani e alla gente del Sud presuppone cambiamenti così profondi nell’uso delle risorse e nel governo del paese da esigere, con un libero confronto, una vasta ricerca di convergenze e di sforzi.
L’intero movimento sindacale è impegnato nel mutamento di questa società. Lo diciamo talvolta con parole diverse, partendo da punti di vista distinti, formati a ideologie anche contrastanti; ma i lavoratori chiedono a tutti i sindacati lavoro sicuro, salario dignitoso, rispetto dei loro diritti, difesa della libertà e della pace. Contare di più nella direzione di questo paese. Dai discorsi di Franco Marini e di Giorgio Benvenuto abbiamo sentito che le risposte, nella sostanza, non sono diverse. Lo sapevamo, del resto, e ciò deve incoraggiare tutti a riprendere senza esitazioni la strada dell’unità, ben sapendo, cari compagni, che ogni convergenza sarebbe effimera se non trovasse corrispondenza e impulso nei luoghi di lavoro nella diretta partecipazione dei lavoratori. E uscendo da questa sala ognuno di voi si deve sentire missionario di questa causa.
Sappiamo che il progresso dell’unità sindacale ha nei rapporti unitari dentro la Cgil una condizione inderogabile. Su questo tema si apre di quando in quando una discussione fra di noi e ciò è avvenuto anche recentemente. Voi sapete che l’impegno per consolidare la nostra unità interna, per il rispetto di un pluralismo che arricchisce la nostra convivenza è stato l’imperativo che ha informato gran parte della mia vita. E voglio dirvi - né questa affermazione vi sembri troppo estranea alla sede e al momento - che davvero non mi sono mai sentito tanto militante di partito, tanto comunista in pace con la mia coscienza di comunista, come quando ho difeso le ragioni dell’autonomia della Cgil e ho lavorato testardamente per la sua unità. Perché in un mondo del lavoro dilaniato dalle divisioni, dai contrasti, non c’è speranza di successo né per il sindacato né per alcuna forza politica che lotti per il progresso, per la giustizia, per l’emancipazione dei lavoratori, se rimane questa divisione, se si approfondisce questo solco.
E adesso mi sia permesso, senza accusarmi di illecita ingerenza negli affari interni di altre organizzazioni, in questo discorso che non è un «articulum mortis» come si diceva, di dire ancora una parola ai numerosi delegati stranieri, tanti dei quali io conosco di persona e che mi sono amici. Con molti di voi, compagni, ho avuto occasioni recenti o lontane di dialogo, di convergenze, di confronto, sempre stimolante anche nel dissenso. Ebbene! Io credo che il momento sindacale internazionale dovrebbe ricercare terreni e iniziative comuni di fronte alle innovazioni che entrano impetuosamente nei processi produttivi e che hanno ovunque in pratica le stesse analoghe caratteristiche. Il sindacato è nato in Europa, un secolo fa, spesso prima che vedessero la luce i partiti socialisti, e fu costruito, come abbiamo detto, su un modello industriale. Io non credo che dopo un secolo di tanta esperienza e conquiste la nostra capacità di analisi, la nostra creatività si siano così esauriti da renderci impotenti ad affrontare la realtà di oggi, di condannarci a una difensiva senza prospettive. Mi rivolgo prima di tutto a noi italiani, ma mi rivolgo anche alle grandi organizzazioni sindacali qui presenti che hanno avuto un ruolo così importante nella storia sindacale e nazionale dei rispettivi paesi, perché si mettano in comune esperienze e idee, per affrontare più forti e uniti la sfida del futuro. È forse matura, oggi, anche la prospettiva di maggiore autonomia, parola che fino a qualche tempo fa suonava quasi incomprensibile in molti sindacati. Noi siamo sempre più convinti che senza autonomia del sindacato non solo si secca una sorgente di democrazia, ma ci si priva di una forza decisiva di progresso. I sindacati obbligatori, unici per legge, i sindacati subordinati ai governi o dipendenti dai partiti, possono essere magari efficaci e potenti difensori di un regime politico, ma il loro annullarsi nel sistema di potere li trasforma in rami dell’amministrazione e ne spegne il lievito progressista.
In molti paesi del mondo, industrializzati o sottosviluppati, a regime sociale assai diverso l’uno dall’altro, la tendenza a subordinare i sindacati è forte e laddove i lavoratori rivendicano libertà d’organizzazione, là facilmente il potere ricorre alla repressione. Bisogna convincersi che una società moderna è inconcepibile senza un sindacato libero e che un sindacato senza autonomia non è un sindacato vero anche se continua a chiamarsi così.
A questa concezione del sindacato come movimento di lavoratori che esprime le loro esigenze sforzandosi di collocarle nell’ambito del progresso del paese combattendo spinte corporative, settoriali, individualistiche, ogni confederazione ha dato in Italia il suo contributo con le accentuazioni e particolarità che derivano dalle distinte radici di ciascuno. Ma questa esperienza ci ha fatto tutti noi - uomini del sindacato - un po’ diversi da chi ha trascorso con altrettanta passione e responsabilità la propria vita nel lavoro di partito o in altri campi di attività politiche. Un po’ diversi, ho detto, non estranei o contrapposti. Chi come me è stato per tanto tempo, contemporaneamente e con la stessa sincerità e partecipazione, militante sindacale e di partito e per l’esperienza compiuta nel sindacato, ha gradualmente acquisito qualche peso anche nel partito, conosce l’assillo dei casi di coscienza, le angosce di dover rispondere a richiami ugualmente potenti che provengono dall’una e dall’altra parte, quando su scelte importanti, le posizioni del sindacato e del partito differiscono tra loro. Ripensate alle stagioni scorse, compagni, e ritroverete con noi alcuni momenti di travaglio. Passare attraverso queste prove forse matura, certamente costa. Io non so se le mie scelte sono sempre state giuste; anzi, sono certo che a volte ho anche sbagliato. Ma anche i miei errori - vorrei che tutti lo credessero - sono stati l’approdo di uno sforzo interiore, di una ricerca di verità che ho compiuto nel profondo della mia coscienza. Perché, cari compagni, dopo aver analizzato collegialmente ogni aspetto di una situazione, dopo aver sinceramente cercato di interpretare la volontà dei lavoratori col massimo scrupolo democratico, ci sono dei momenti cruciali nei quali sei solo, e da solo, in ultima analisi, devi decidere la sua posizione, devi scegliere la tua strada, caricandoti delle responsabilità che ciò comporta.
Un uomo vero è una persona, ha un solo pensiero, una sola coscienza e non può atteggiarsi diversamente a seconda che affronti un problema in una sede o nell’altra. Può darsi che chi non milita in un partito sia meno impegnato e talvolta meno oppresso da problemi di questa natura. Ma io non lo credo! Pierre Carniti, che ha lasciato la Cisl qualche mese fa e che saluto con affetto fraterno, pur non militando in nessun partito, non soggiaceva certo prendendo le sue posizioni, a una impostazione unilaterale, senza problemi delle questioni che affrontava. Anche altri imperativi, morali e politici, si presentavano a lui, così pressanti e forti da non poterli ignorare nel momento delle scelte, da farlo soffrire anche se le prendeva con tanta fermezza e durezza. E la consapevolezza di un tale comune assillo, se non ha cancellato le diversità anche grandi che talvolta ci hanno diviso, ha alimentato in me stima profonda per la sua sincerità, per la sua assoluta onestà intellettuale e morale.
Un vero grande sindacato come il nostro ha sempre assolto in tutta la sua storia a una funzione nobile di educazione politica e classista, ma anche morale delle masse. Abbiamo sempre cercato di parlare ai lavoratori come a degli uomini, di parlare al loro cervello e al loro cuore, alla loro coscienza. In questo modo il sindacato è diventato scuola di giustizia, ma anche di democrazia, di libertà, ha contribuito a elevare le virtù civili dei lavoratori e del popolo.
Il gruppo dirigente che uscirà da questo congresso, in tanta parte rinnovato, è cresciuto a questa scuola.
I compagni, valorosi e capaci, che lo compongono meritano la vostra fiducia e sapranno lavorare insieme, utilizzando gli apporti originali di ognuno, collaborando tutti al rinnovamento e al successo dell’organizzazione.
A essi, al compagno Pizzinato, a Del Turco, a Trentin, a tutti, va il mio augurio fraterno, anzi la mia certezza di un successo del loro lavoro.
Vi saluto, compagni congressisti, lavoratori della Cgil.
Accomiatandomi da voi, mi accingo a dare al mio partito il modesto contributo di cui sarò capace.
Può darsi che ciò serva a qualche cosa. Può darsi che l’esperienza compiuta nel lavoro sindacale, che gli ammaestramenti che mi avete impartito siano di qualche utilità per affrontare i grandi problemi di rinnovamento che oggi stanno di fronte anche alle forze politiche progressiste, e quindi al mio partito, perché anche nei partiti il confronto delle idee, libero, come si sta facendo nel mio, è necessario per compiere scelte giuste.
Al compagno Del Turco, che anche a nome vostro è stato così prodigo di apprezzamenti verso di me, e a voi tutti che mi dimostrate oggi come sempre tanto affetto, non riesco a rispondere altro che grazie!
Grazie per avermi offerto una vita piena, una causa grande, una ragione giusta di impegno e di lotta.
Grazie anche a voi, Marini e Benvenuto, per le parole buone, troppo buone che mi avete rivolto. Grazie di cuore, amici miei. Voi sapete che ci unisce e ci unirà sempre un rapporto di fiducia, un amore profondo che nessuna vicenda umana potrà spezzare.
Perché ci sono delle radici che non si possono sradicare. Voi, per me, siete quella radice!