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L’11 giugno del 1984, dopo quattro giorni di coma, a 62 anni, muore a Padova Enrico Berlinguer. “In questi giorni è bruciato il firmamento”, dirà, interpretando il pensiero di tanti, Roberto Benigni.
“Abbiamo tutti pensato non soltanto che era successa una “tragedia politica” - gli faceva eco Natalia Ginzburg - ma abbiamo pensato che la sua morte era per ognuno di noi una disgrazia personale, una perdita personale. Ci siamo accorti che ognuno di noi aveva con lui un rapporto fiducioso e confidenziale, anche se ci eravamo limitati ad ascoltarlo nella folla d’una piazza. Fu un momento in cui, come aveva detto Benigni, “il firmamento bruciava”. La sensazione che “bruciava il firmamento”, in quei giorni, l’abbiamo avuta tutti”.
“Quando mi dissero che era morto, scoppiai in un pianto convulso - raccontava Alberto Menichelli, autista storico del segretario, guardia del corpo e amico - Mi tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i giornali alle sette e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta' zitto, ho nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo”.
Perché in fondo Enrico era questo: “Una persona perbene”, nella definizione di chiunque lo abbia conosciuto. “Berlinguer era un uomo che sosteneva con forza l’idea dell’etica nella politica -ricordava pochi giorni dopo la sua morte Luciano Lama - Ci credeva davvero. Ci sono quelli che non vogliono proprio sentire parlare di etica, anzi stabiliscono due categorie diverse: uno è il campo della morale, l’altro il campo della politica. Quindi politica come carriera, come successo, come potere, forse anche come corruzione. Poi la morale. Bene: questa scissione lui proprio non l’accettava, era il rovescio esatto della concezione che aveva dell’integrità. Certo, capita spesso che chi ha questa concezione della vita politica viene definito integralista, moralista. Lo è veramente se pretende di fare agli altri la lezione che magari non applica alla propria persona. Del resto il rispetto è sincero anche da parte dei ladri. Non è vero che i ladri disprezzano gli onesti, non è vero che i corrotti disprezzano gli integerrimi. Alla base di questo sentimento di solidarietà, di dolore sincero, c’è un sentimento profondo che riguarda un uomo che aveva una diversità: quella di essere pulito, quella di mettere gli interessi personali al di sotto di quello che lui considerava il bene del Paese”.
Un Paese che il giorno dei funerali scende in piazza compatto e commosso per dirgli addio. “Quella notte Roma sembrava una città sospesa - scriverà anni dopo Pietro Spataro su Strisciarossa - e l’autostrada un filo nero lanciato verso il mare. Al volante di una Centoventisette bianca inseguivo l’alba di un giorno che sarebbe rimasto per sempre nella memoria. Come il ghiaccio nei ricordi di Aureliano Buendia in Cent’anni di solitudine di Marquez. Era il 13 giugno del 1984”.
Un lamento collettivo risuona in continuazione: “Enrico, Enrico”. “Un milione e mezzo di persone, magari di più, impossibile contarle - scriveva Lietta Tornabuoni - Il segretario comunista ha avuto dopo la morte il suo comizio più grande, l’emozione più profonda e il consenso più vasto di tutta la vita. Una folla sterminata, addensata nella piazza ma unita anche nei cortei e altrove per l’intera città, venuta da tutta Italia: bandiere rosse, pugni chiusi levati, fiori rossi, striscioni, canti alti o sommessi. Grida: “Enrico, Enrico”. Fazzoletti rossi. Cartelli. Uno dice: “La grande forza dell’uomo è il pensiero. Tu hai saputo pensare. Grazie, Enrico”; altri ripetono con affettuosità familiare “Ciao, Enrico”; “Addio” è l’unica grande parola stampata in rosso su quella prima pagina dell’Unità che molti portano spiegata in mano o sul petto, come un emblema di lutto o un modo di espressione. Una immensa manifestazione di forza, disciplina e serietà: ma anche di una malinconia triste, solitaria e finale. Partita dalla sede del partito comunista in via delle Botteghe Oscure, la bara nel furgone dalle pareti dr cristallo, preceduta dalla musica, seguita dai familiari e dai compagni, soffocata di fiori, passa a fatica tra fitte pareti di gente commossa, e dal brutto palazzo rosso percorre uno scenario unico al mondo: il Campidoglio michelangiolesco e i Fori imperiali, le torri medievali e le colonne dei templi pagani e cristiani di Roma. Un corteo lunghissimo ma puntuale: è l’ora fissata anche dalla televisione le quattro e mezzo, quando arriva in piazza San Giovanni. Una piazza speciale: tra le più vaste della città, distesa in pendenza davanti alla basilica, limitata al fondo dalle antiche mura, da quarant’anni è la casa e il palcoscenico dell’emozione comunista, di vittorie, speranze e dolori del partito”.
“Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara, sotto al palco e alla fotografia - cantano i Modena City Ramblers -. La città sembra un mare di rosse bandiere e di fiori e di lacrime e di addii gli amici e i compagni lo piangono, i nemici gli rendono onore, Pertini siede impietrito e qualcosa è morto anche in lui”.
Il vecchio partigiano saluta la bara e fa trasportare la salma sull’aereo presidenziale: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”, dichiara. Il 17 giugno alle elezioni europee il Pci decide di lasciare Enrico Berlinguer come capolista. Il Partito comunista italiano raggiungerà il 33,3% superando la Democrazia cristiana. Sarà questo l’ultimo regalo di Berlinguer al suo partito, quel Partito che era riuscito a portare al suo massimo storico, quando nel 1976 il Pci arrivò al 34,4%.
Si racconta che Craxi e Martelli abbiano accusato Pertini di aver fatto aumentare i voti del Partito comunista portando la salma di Berlinguer da Padova a Roma sull’aereo presidenziale. Pare che la risposta del presidente sia stata: “Voi due fate una cosa: tornate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi porto in aereo a Roma. Vediamo se il Psi prende voti”.