Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto da La vita breve, Edizioni Sur. Juan Carlos Onetti (1909-1994) uruguayano, ha ricevuto nel 1980 il Premio Cervantes, massimo riconoscimento della cultura ispanica, per la sua carriera letteraria. Fra le sue opere: Per questa notte (1943), La vita breve (1950), Il cantiere (1961), Lasciamo che parli il vento (1979).

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«Che razza di mondo», ripeté la donna, come se imitasse qualcuno, o traducesse da un’altra lingua.

Io la sentivo attraverso la parete. Immaginai la sua bocca in movimento davanti all’alito di gelo e fermentazione del frigorifero o alla tenda di bambù marrone scuro che doveva starsene rigida tra la sera e la camera da letto, velando il disordine dei mobili appena arrivati. Ascoltai, distratto, le frasi intermittenti della donna, senza credere a ciò che diceva.

Quando la sua voce, i suoi passi, la vestaglietta da casa e le braccia robuste che le immaginavo passavano dalla cucina alla camera da letto, un uomo ripeteva monosillabi, annuendo, senza abbandonarsi del tutto allo scherno. Il calore che la donna fendeva si richiudeva alle sue spalle, colmava gli spazi vuoti e si posava greve in tutti gli appartamenti, nei vani delle scale, negli angoli del palazzo.

La donna andava e veniva dall’unica stanza dell’appartamento accanto, e io la ascoltavo dal bagno, in piedi, la testa china sotto la pioggia quasi silenziosa. «Anche se mi si spezza il cuore, le giuro», disse la voce della donna, un po’ cantilenante, il fiato che le si mozzava alla fine di ogni frase, come se un ostacolo tenace le impedisse ogni volta di confessare qualcosa. «Non andrò a pregarlo in ginocchio. Era quello che voleva, ora è accontentato. Ho anch’io il mio orgoglio. Anche se fa più male a me che a lui».

«Su, su», diceva conciliante l’uomo. Ascoltai per qualche minuto il silenzio dell’appartamento al cui centro tintinnavano ora cubetti di ghiaccio che giravano nei bicchieri. L’uomo doveva essere in maniche di camicia, corpulento, mascella forte; lei faceva smorfie nervose, disperandosi per il sudore che le colava sul labbro e tra i seni. E io, dall’altra parte del sottile tramezzo, ero nudo, in piedi, coperto di gocce d’acqua, e le sentivo evaporare, senza decidermi a prendere l’asciugamano, mentre guardavo, oltre la porta, la camera in penombra dove il calore accumulato circondava il lenzuolo pulito sul letto.

Pensai, deliberatamente ora, a Gertrudis: amata Gertrudis dalle lunghe gambe; Gertrudis con una vecchia cicatrice biancastra sul ventre; Gertrudis che sbatteva le palpebre, taciturna, e a volte ingoiava il rancore come saliva; Gertrudis con una rosellina d’oro appuntata sui vestiti della festa; Gertrudis, che sapevo a memoria…

…Ero costretto ad aspettare, e la povertà con me. E tutti, nel giorno di Santa Rosa, la donnetta sconosciuta che aveva appena traslocato nell’appartamento accanto, l’insetto che girava nell’aria profumata di sapone da barba, tutti quelli che vivevano a Buenos Aires erano condannati ad aspettare con me, consapevoli o no, boccheggianti come idioti nel caldo minaccioso e infausto, spiando il breve temporale magniloquente e l’immediata primavera che si sarebbe fatta strada dalla costa per trasformare la città in un territorio ferace dove poteva nascere la felicità, repentina e completa, come un atto della memoria.

La donna e l’uomo erano tornati in camera da letto e li avevo persi.