PHOTO
Bruno Trentin scrisse nel luglio del 2006 un articolo per il quotidiano l’Unità sul tema del “merito” e della “meritocrazia”. Il suo tarlo era quello di capire come fosse stato possibile che quella ideologia del merito come forma di esclusione sociale fosse penetrata così in profondità perfino nel pensiero della sinistra, tanto da averla accettata senza alcuna capacità critica. Trentin ne rilanciò la questione sul piano della formazione, dell’istruzione.
La meritocrazia, scriveva, come forma originaria e ideologica di esclusione dal potere, venne sprezzantemente criticata “e respinta” fin dall’Illuminismo: “Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet, respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del 'valore' della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio”.
Il segno dell'esclusione sociale
E tuttavia, già dalla seconda metà del Novecento, prese avvio quella concezione di “merito” come elargizione da parte del potere di un premio, e dunque come esclusione sociale, con una torsione ideologica potente a tal punto da diventare egemone. Scriveva ancora Trentin: “Con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell'autorità il ricorso al 'merito' (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il 'sapere fare', valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza”.
Il paradosso, tra la fine del XX e l’inizio del XXI è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, nonostante la meritocrazia sia il pilastro della burocrazia), con il predominio del liberismo neoconservatore e autoritario, appare nel linguaggio corrente della stessa sinistra come un valore da riscoprire.
Un'ideologia neoliberale
Le politiche degli ultimi 20 anni hanno consolidato l’ideologia neoliberale nella quale merito e mercato diventano sinonimi. Sotto i colpi del neoliberismo trionfante e della finanziarizzazione dell’economia abbiamo assistito alla crisi della migliore pedagogia democratica che da sempre collega la missione educativa all’idea di un altro mondo possibile.
Al posto dei pedagogisti appaiono abitualmente nei documenti ministeriali gli esperti di organizzazione aziendale e l’uso forsennato di anglismi collegati a questa cultura. La meritocrazia è diventata la parola chiave su cui orientare i processi di trasformazione della scuola collegata al concetto di imprenditorialità quale chiave di inclusione e modello di ogni comportamento civico e sociale.
La scuola della Costituzione
Non ci meravigliamo quindi se il nuovo governo di destra ha deciso, dopo la cancellazione dell’aggettivo pubblica, di aggiungere al nome del ministero l’aggettivo "merito". È bene per questo ricordare il senso più profondo della scuola nella Costituzione. Ci piace farlo partendo dal discorso che nel 1951 Piero Calamandrei fece all’Università di Milano, divenuto nel tempo famosissimo.
Il grande giurista e padre costituente aveva dinanzi a sé un uditorio composto da giovani che erano stati allevati culturalmente nelle scuole elementari fasciste, erano poco più che adolescenti durante la guerra mondiale e non ancora maggiorenni quando la Costituzione entrò in vigore nel 1948. Possiamo supporre che qualcuno di loro l’avesse letta, la Costituzione. Erano pure sempre figli della ricca borghesia meneghina.
Ma di certo, nel 1951 la consapevolezza della Carta costituzionale non era così comune. Eppure, quel grande padre costituente non esitò a rivolgersi loro partendo dall’articolo 34, quello dell’uguaglianza sostanziale nel campo dell’istruzione, e lo definì “il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi”.
Un'uguaglianza di fatto
Vale la pena riportare qui alcune frasi della sua lezione agli studenti del 1951, che andrebbero trascritte sulla pietra: “Fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società”.
In queste parole è racchiuso il nesso fortissimo che lega sapere-lavoro-democrazia-uguaglianza, che la Costituzione del 1948 ha saputo non solo cogliere, ma rimandare alle generazioni future. Come risuonano vere queste parole, anche nell’epoca nostra, nella quale tutto è così a portata di mano, che crediamo di poter dare scontate verità, che scontate, nella realtà quotidiana, non lo sono più.
Si pensi ancora una volta all’evoluzione della parola “merito”, che aveva un particolare significato e senso positivo nella Costituzione del 1948 (“i capaci e più meritevoli, anche se privi di mezzi”), e presupponeva una forma forte di inclusione sociale, proprio a partire dalla scuola dell’obbligo e dalle condizioni economiche di partenza.
La spinta dei movimenti sociali
Dagli anni Sessanta grazie alla spinta dei grandi movimenti sociali che hanno contributo in modo determinante ad applicare la Costituzione si assiste ad uno straordinario aumento dei livelli di istruzione e dei livelli di apprendimento dei figli delle classi più svantaggiate, mentre cresce la consapevolezza dei padri e delle madri della propria dignità.
Le ricerche ci dicono che in Italia in quel periodo, e non solo, le probabilità di raggiungere i livelli di apprendimento più alti cominciano a dipendere meno dal reddito delle famiglie di provenienza. Nello stesso periodo si fanno strada nuove consapevolezze pedagogiche che guardano al cambiamento del mondo partendo dalla scuola.
Si domanda sapere per sé stessi e per questo ci si convince dell’importanza che avrà per i propri figli. Cruciale in quel riscatto fu la mobilitazione degli studenti e degli operai: il “secondo biennio rosso”, a cinquanta anni di distanza dal primo, come lo definì Trentin, uno dei principali protagonisti di quella straordinaria stagione di lotte.
Operai e studenti raggiunsero insieme alcuni risultati concreti. Si erano create commissioni per la riforma della scuola secondaria, dell’università, delle attività artistiche legate al teatro e al cinema e perfino il sistema dell’informazione venne sottoposto a dura critica. Gli operai avevano conquistato forme di autodeterminazione in fabbrica e avevano conquistato le 150 ore: il sapere non solo per controllare il ciclo produttivo ma per emanciparsi dalla classe di appartenenza, per apprezzare il cinema e la musica, per leggere poesie. Le 150 ore per poter suonare il clavicembalo!
L'esperienza di Barbiana
Riappropriarsi del sapere per rompere le gerarchie sociali, per prendere l’ascensore sociale tutti insieme, e migliorare tutti insieme la propria condizione di vita. La pedagogia democratica degli anni ‘60 si domandava non a caso se fosse proprio vero che i figli della povera gente fossero più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. Nacque da lì l’esperienza di Barbiana e dei tanti doposcuola popolari che anticiparono il ’68. Si aprì uno scontro con la meritocrazia tradizionale della scuola italiana.
La motivazione allo studio e all’impegno era quella di crescere tutti assieme dando valore alle capacità e ai talenti, che è cosa ben diversa dal merito, che tutti possiedono, e che la scuola deve far emergere e valorizzare.
La pedagogia democratica cambiò la scuola italiana, soprattutto quella dell’infanzia e delle elementari. Quel cambiamento fa sì che la nostra scuola primaria, nonostante i tagli, sia ancora oggi una delle migliori del mondo, primo presidio dell’accoglienza e dell’integrazione che, grazie alle nostre maestre e ai nostri maestri, costruisce davvero la cittadinanza democratica. Quel prezioso sapere pedagogico non voleva il mondo “così com’è” cristallizzato nelle sue ingiustizie, ma voleva cambiarlo partendo dalla scuola.
Insomma, oggi si è passati dalle riforme che volevano rendere le persone più uguali e capaci di vivere una vita degna di essere vissuta a riforme della scuola per adeguarla a un mondo in cui sono sempre più forti i valori della competitività e dell’individualismo, un mondo in cui entrano in crisi i valori della solidarietà e dell’uguaglianza, un mondo in cui la ricerca del profitto e il mercato senza regole mettono in discussione le stesse possibilità della vita umana sul pianeta come ci ricorda Bergoglio.
La scuola che vogliamo
Oggi, di fronte alla regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione, al persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, alla difficoltà non risolta di tutte le transizioni che colpiscono i più deboli, alla priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza, dobbiamo tornare a una considerazione di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica, sulla spinta delle straordinarie e profetiche provocazioni di Don Milani: se il sapere è solo quello dei libri, “chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”.
Serve ancora di più comprendere che il sapere è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza democratica, per realizzare l’obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capacità di ciascuno. Lo studio, la scuola, l’università sono parte del riscatto sociale, sono strumenti indispensabili per la comprensione del mondo, di socializzazione democratica, perché educano al sapere critico.
La scuola non deve educare il capitale umano, non è un luogo di addestramento al lavoro così com’è; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze, innanzitutto tra Sud e Nord, e non a moltiplicarle.
Le stesse opportunità per tutti
Per far sì che nessuno resti indietro bisogna innanzitutto costruire le condizioni affinché in tutto il territorio nazionale, contro qualsiasi forma di autonomia differenziata, siano garantite le stesse opportunità e gli stessi diritti: infrastrutture, organici adeguati alla realizzazione del tempo pieno nelle regioni del Sud, elevamento dell’obbligo scolastico fino ad almeno 18 anni, obbligatorietà della scuola dell’infanzia e gratuità effettiva della scuola sono la base.
Occorre avere la consapevolezza che oltre a questo è necessario un sistema di educazione degli adulti in grado di innalzare le conoscenze complessive della popolazione che incidono pesantemente sui livelli di apprendimento dei bambini e dei ragazzi. Vale per il Nord e il Sud, ma vale per tutti i divari come quelli che caratterizzano le grandi città tra centro e periferia.
Sapendo che la scuola da sola non può colmare il più grande divario territoriale d’Europa e non può assolvere alla sua missione senza un grande progetto nazionale mirato a superare i differenziali nelle possibilità di investimento sulla cultura, sul sapere e sulla scuola. Per questo serve un investimento straordinario dello Stato, l’opposto dell’autonomia differenziata.
Francesco Sinopoli, segretario generale Flc Cgil