Succede che circa un anno e mezzo fa Giovanni Germi, collaboratore volontario della Cgil di Milano, per una vita operatore dell’Inca, decide di mettere in ordine un armadio pieno di vecchi documenti. Ed è così che si ritrova tra le mani un piccolo tesoro: oltre 200 testimonianze di internati militari che avevano rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Debora Migliucci, direttrice dell’Archivio del Lavoro della Cgil di Milano, ne capisce subito il valore. Nasce con questa piccola grande scoperta La Scelta, la Fame, il Silenzio, in mostra fino al 28 febbraio alla Camera del Lavoro di Milano. Un tassello importante della nostra storia, che parla degli invisibili della Resistenza. L’esposizione, a cura di Cgil, Archivio del Lavoro, Associazione Pio Galli, Inca e col patrocinio del Comune di Milano, vela storie poco conosciute degli Internati militari italiani. Uomini che rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e per questo subirono violenze, fame e isolamento nei lager nazisti.
Debora Migliucci, come è nata l'idea di questa mostra?
Circa un anno e mezzo fa mi chiamò il direttore dell’Inca di Milano, all'epoca Francesco Castellotti, per dirmi dei documenti ritrovati. Mi sono subito resa conto di avere tra le mani un tesoro. Nel passato, infatti, l’Inca si era fatta carico di gestire le domande di indennizzo degli internati militari, così come facevano in Germania, dove era stata approvata una legge ad hoc. E alla domanda andavano allegate le testimonianze. Capimmo con Roberta Cairoli che questo patrimonio andava assolutamente valorizzato. Iniziamo a documentarci, a scrivere i testi. Un giorno, in visita alla Camera del Lavoro di Lecco per un corso di formazione, condividendo questa storia con il direttore del loro archivio storico, scopro che anche loro avevano una serie di faldoni contenenti tutta la documentazione, tra cui i libretti di lavoro.
Gli archivi sono un passato che contiene ancora tanto futuro.
Sì, è proprio così, un patrimonio che continua a parlare al presente. Continuiamo a fare scoperte preziose nei nostri armadi. Gianni ha chiamato subito l’archivio perché ha intuito di aver trovato un piccolo tesoro.
Il titolo della mostra riassume tre momenti cruciali: il prima, la Scelta di non aderire alla Repubblica di Salò; il durante, la Fame fisica e mentale dei campi di concentramento; il dopo, il Silenzio, la fatica di raccontare, ma anche l’indifferenza della società verso la loro vicenda.
Queste persone erano quasi tutte parte di una truppa, soldati semplici, non ufficiali, che vengono arrestati nei giorni successivi all'8 settembre, dopo l'armistizio, quando l'esercito italiano rimane senza ordini i militari. La prima cosa che viene chiesta loro è di scegliere tra le Ss e la Repubblica sociale, oppure di finire nei campi di lavoro. In 650 mila optano per i campi di lavoro, ma la cosa incredibile è che rifaranno la stessa scelta anche successivamente, quando le condizioni di vita in quei campi saranno ormai a loro ben chiare: si mangiava poco, si lavorava molto e faticosamente, soprattutto nell’edilizia. Scavavano tunnel sotterranei, fosse per i cadaveri, toglievano le macerie nelle città bombardate. Eppure persistono nella loro scelta di resistenza, una scelta antifascista, che fanno forse anche perché hanno conosciuto la guerra. E poi c’è il silenzio, perché le cartoline e le lettere che inviavano alle famiglie non potevano dire tutta la verità in merito a ciò che succedeva nei campi. Ma quando finalmente vengono liberati, agli internati militari niente viene riconosciuto.
Perché sono dei personaggi “scomodi”, avendo avuto un passato da militari nell’esercito fascista?
Esattamente, si portano addosso una specie di duplice stigma: i fascisti li considerano traditori, ma per gli italiani restano dei fascisti. Persino la storiografia comincia a occuparsi degli internati militari solo alla fine degli anni ’70, e i primi riconoscimenti arriveranno circa un decennio dopo, quando molti di loro purtroppo sono già morti. Inoltre la categoria di internato militare non esiste, né nel diritto italiano né in quello internazionale. Se la inventa Hitler per costringerli a lavorare, eludendo le norme della Convenzione di Ginevra e la protezione della Croce rossa internazionale. Inoltre, gli indennizzi venivano riconosciuti solo ai lavoratori civili, per cui queste persone non avevano diritto a niente. Infine, la società non era pronta ad affrontare elaborazioni complesse come quelle legate a un disturbo post-traumatico da stress. Eppure noi abbiamo degli internati militari celebri, come Giovannino Guareschi, che scrive “noi siamo i volontari dei lager”, coloro che avevano la possibilità di tornare indietro e invece scelgono di rimanere. Un altro internato celebre è Alessandro Natta, caso emblematico, perché scrive le sue memorie ma il Partito comunista gliene vieta la pubblicazione, che avverrà molto tempo dopo.
Per molto tempo questi militari vivono in un limbo, in balia di decisioni estemporanee. Per esempio lo stesso Mussolini nel ’44 decide di trasformarli in lavoratori civili. Perché?
Dopo avere completamente abbandonato quelli che erano stati i suoi soldati, decide di convertirli in lavoratori civili, perché per la Repubblica sociale sarebbe stata un’onta troppo grande rivelare che 650 mila militari erano stati rinchiusi per aver rifiutato politicamente di aderire alla Repubblica di Salò. Il governo Badoglio non se ne fa carico, e neanche l'Italia repubblicana.
Questa mostra – e la Cgil Lombardia non è nuova a iniziative di questo respiro – è l’esempio tangibile di come la storia del lavoro sia, a tutti gli effetti, la storia del Paese.
É la potenza della memoria. La storia del sindacato è la storia d'Italia, e tutto quello che arriva a noi, ai nostri servizi, è di fatto storia della quotidianità. La storia del vivere delle persone.