La Zisa è un quartiere popolare dove la disoccupazione tocca punte del 50%, la dispersione scolastica raggiunge picchi dell’8% e molti dei ragazzi lasciano gli studi una volta raggiunta l’età dell’obbligo. Da qui parte "La nostra strada", in concorso al Biografilm Festival e in streaming su MyMovies, dalle 21.00 di stasera e per le prossime 24 ore. Pierfrancesco Li Donni, com'è venuto in contatto con i ragazzi della III B e il loro professore, Giovanni?
Ero tornato a vivere a Palermo da poco e mi ero messo in testa di raccontare la città inabissandomi nel suo respiro, provando a raccontare la sua anima, ma soprattutto a costruire una narrazione che restituisse la sua complessità. Volevo raccontare un quartiere che non conoscevo, volevo sentirmi straniero dentro il giardino di casa e perdermi nelle vie e nelle case dei palermitani. La scuola e Giovanni sono venuti dopo. Li ho incontrati per caso, poi ho capito che raccontando una scuola di frontiera avrei potuto ragionare sullo stato di salute di Palermo e dei suoi figli, far emergere in maniera ancora più netta la complessità che sentivo di voler fotografare. Con Giovanni e i suoi alunni è stato subito amore. Mi entusiasmava l’idea di raccontare il lavoro di un professore di italiano in un quartiere difficile, con degli studenti intelligenti ma in qualche modo obbligati a crescere in fretta lontano dai banchi di scuola.
La dispersione scolastica resta un vulnus del nostro sistema educativo, legata al contesto in cui si cresce, ma anche alla facile alternativa di un lavoretto in nero per “campicchiare”. Perché questa alternativa è così affascinante per i ragazzi?
Facendo questo film ho capito che i ragazzi avevano un gran desiderio di crescere in fretta. Troppo presto rispetto alla loro età cedevano alle lusinghe dei soldi facili, non capendo che questo desiderio di emanciparsi economicamente dalle loro famiglie rischiava il più delle volte di svendere la loro esistenza. Volevano potersi permettere una maglietta griffata, volevano poter comprare il regalo al fidanzato di turno e gridare al mondo che li circonda che anche loro possono guadagnare. Così facendo, però, è come se avessero scelto di stare dalla parte sbagliata del mondo, un mondo che non considera centrale la loro formazione e che troppo spesso li fa entrare dentro un circuito al quale ai diritti si sostituiscono i favori.
Un proverbio africano recita che per educare un bambino ci vuole un intero villaggio. Colonna Rotta è, nel bene e nel male, una comunità, all’interno della quale l’istruzione non è percepita come un valore.
Mentre costruivo la narrazione del film, sentivo in maniera chiara disvelarsi un grande tema dei nostri tempi: l’eterno conflitto tra la legge dello stato e quella del rione. A farne le spese è quasi sempre il mondo dell’istruzione e dei saperi. Nella scuola del film insegnano persone straordinarie, che provano in tutti i modi a fare fino in fondo il loro lavoro, ma a volte tutto questo non basta. La scuola non gode più della stessa fiducia di un tempo. Il problema non è né di chi insegna né delle famiglie, semmai sta a monte. Troppo spesso lo Stato lascia che sia la scuola a dover sostenere il peso della polis, mentre il cittadino non si riconosce più nello Stato. È un cane che si morde la coda. Andrebbe ripensato il modo di stare insieme, dovrebbe essere garantiti il principio di mobilità social, i principi su cui si basa la nostra Costituzione.
Il professor Giovanni è una figura poetica, nei modi e nell'aspetto. Distaccato dal resto della comunità, eppure fortemente intenzionato a restare in contatto con i suoi ragazzi. Con lo spettatore si instaura una forte empatia.
Giovanni è ancora più bravo di quel che si vede nel film. È una figura centrale nella relazione tra la scuola e il quartiere. Le mamme della Zisa fanno di tutto per iscrivere gli alunni nelle sue classi. Il suo è un metodo infallibile messo a punto in chissà quanto tempo. L’ho visto affrontare i temi più disparati e tenere sempre in alto la soglia dell’attenzione dei suoi studenti. Fa di tutto per trasmettere l’amore per lo studio. D’altronde, come lui ricorda spesso a lezione, studiare viene da studere, che in latino significa amare. Nel film si capiscono chiaramente la sua passione e il suo amore per i ragazzi e per la scuola.
Tra le cose che più colpiscono, c’è la naturalezza con cui i ragazzi agiscono nel loro quotidiano davanti alla telecamera. Com'è riuscito a mantenere questa verità, senza risultare invasivo?
Per me fare un film significa andare ad abitare dentro le storie. Ho voluto passare un tempo lungo con i protagonisti del film. Un tempo umano, di ascolto, di relazione, di attenzione per il loro percorso di crescita, per le loro urgenze, i loro sogni e le loro parole mai banali e sempre interessanti. Non tutto è stato facile, soprattutto far capire cosa sia un documentario, che senso abbia filmare per mesi e mesi. Cercavo di spiegare ai ragazzi che erano loro a dovermi portare nelle proprie e non io a portarli dentro al film. Alla fine, come in ogni lavoro documentario che si rispetti, è venuta fuori questa magia di racconto che solo il Cinema del reale possiede.
La gran parte del film si concentra sugli sforzi del professore per evitare che i suoi ragazzi lascino la scuola dopo la terza media. Le sequenze finali, girate un anno dopo, lasciano l’amaro in bocca.
Il primo anno lontano dai banchi di scuola ha lasciato l’amaro in bocca anche a me. Continuo a sentire tutti loro, sono certo che ce la faranno, sono dei ragazzi intelligentissimi e spero che la vita possa regalare loro le soddisfazioni che meritano. Penso soprattutto a Daniel, un ragazzo d’oro. Sembra il personaggio di un romanzo e invece è proprio così, genuino e spontaneo per come lo si impara a conoscere durante la visione del film. Palermo dovrebbe valorizzare i tanti Daniel della città. Una città dove il genio di chi si arrangia dovrebbe essere riconosciuto e sostenuto da tutti.