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“L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo”. Così Benito Mussolini preannunciava a Trieste, in piazza Unità d’Italia, il 18 settembre 1938, l’imminente promulgazione delle norme razziali sul territorio italiano.
In piazza quel giorno ci sono 150 mila persone, camicie nere, fazzoletti e applausi. È il primo atto antisemita mediatico del regime, il segno che le cose precipitano. “Trieste è con Te. La sua anima è temprata alla Storia. Crede nel Tuo pensiero che diventa azione, nella Tua parola”. Così commentava l’avvenimento su Il Piccolo, in prima pagina, Chino Alessi.
Scriveva in occasione del 75° anniversario dell’annuncio Anna Foa su Avvenire: “L’annuncio di Mussolini a Trieste non coglieva di sorpresa gli ebrei, che avevano visto scatenarsi la tempesta già da alcune settimane e che erano bombardati da almeno un anno da una crescente propaganda antisemita. Nel luglio era apparso il Manifesto della razza, firmato da un gruppo di scienziati e ispirato direttamente da Mussolini, in cui si teorizzava, con non poca confusione, l’appartenenza degli italiani a una pura razza italiana a cui gli ebrei non appartenevano. I giornali, le istituzioni, il mondo culturale non mostrarono nessuna opposizione alla svolta razzista e antisemita di Mussolini che non mancava del resto di avere dietro di sé una lunga preparazione”.
Una lunga preparazione che nella Venezia Giulia aveva già da anni colpito, prima ancora che gli ebrei, gli uomini e le donne di origine slava. Proprio a Trieste, il 13 luglio 1920, dopo un comizio, un gruppo di estremisti fascisti e nazionalisti attaccava e dava fuoco a venti edifici tra i quali il Narodni dom, nel corso di quello che Renzo De Felice ha definito “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”.
Prima ancora dell’emanazione in Italia delle “leggi fascistissime”, gli sloveni e i croati rimasti nel loro territori vedranno chiudere, uno dopo l’altro, con disposizioni amministrative e atti di violenza, i loro centri culturali, i giornali, le società sportive e ricreative, le Casse rurali, le cooperative e ogni altra organizzazione.
Il Regio decreto n. 1796 del 15 ottobre 1925 proibirà tassativamente l’uso di lingue diverse dall’italiano in tutte le sedi giudiziarie. Tutti gli atti redatti in lingua diversa da quella italiana sono da considerarsi come non presentati. Se la trasgressione viene commessa da un giudice, ufficiale giudiziario o da altro impiegato giudiziario, esso viene sospeso dal servizio. In caso di recidiva viene esonerato. Analoghi provvedimenti saranno presi per tutti gli uffici pubblici e anche nei negozi e nei locali pubblici sarà proibito l’uso delle lingue locali.
Il Regio decreto n. 800 del 29 marzo 1923 aveva già imposto l’italianizzazione della toponomastica, arrivando con il Rd n. 17 del 10 gennaio 1926 all’italianizzazione forzata dei cognomi (il Regio decreto 7 aprile 1927, n. 494, estenderà a tutti i territori delle nuove Provincie le disposizioni contenute nel decreto-legge 10 gennaio 1926, n. 17, circa la restituzione in forma italiana dei cognomi delle famiglie della Venezia Tridentina).
Anche le leggi sulla scuola (la riforma Gentile sancirà formalmente l’obbligo dell’uso dell’italiano come unica lingua di istruzione nelle scuole del Regno, con la possibilità in aree mistilingui di studio della lingua locale in ore aggiuntive, previa richiesta delle famiglie all’inizio dell’anno scolastico; con il Rdl del 22 novembre 1925 verrà definitivamente abolito l’insegnamento delle lingue minoritarie, togliendo anche la possibilità delle ore aggiuntive nelle scuole elementari) e la religione asseconderanno la volontà del regime, costringendo alle dimissioni maestri e prelati dissidenti.
È probabilmente anche per questo che nel settembre 1938 Mussolini proclamerà proprio a Trieste la promulgazione delle famigerate leggi razziali. “È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”, del resto candidamente sanciva La difesa della razza del 5 agosto 1938 (anno I, numero 1) ripubblicando Il manifesto della razza (o manifesto degli scienziati razzisti) pubblicato su Il Giornale d’Italia il 14 luglio 1938.
“Le razze umane esistono”, vi si leggeva: “L’esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti”.
“La popolazione dell’Italia attuale – è scritto – è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa”.
Lo scritto così conclude: “I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani”.
Dalla definizione di razza alla discriminazione ed espulsione dei cittadini ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo sarà breve. Dalla teoria si passerà ben presto ai fatti, in un susseguirsi di provvedimenti sempre più restrittivi della libertà e della dignità delle persone di origine ebraica.
Al Regio decreto del 5 settembre 1938 che fissava Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista e a quello del 7 settembre che fissava Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri fa seguito, il 6 ottobre, una Dichiarazione sulla razza emessa dal Gran consiglio del fascismo. Tale dichiarazione sarà successivamente adottata dallo Stato sempre con un Regio decreto che porta la data del 17 novembre dello stesso anno.
Il Regio decreto n. 1728 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana) stabilirà il divieto di matrimoni misti tra ebrei e cittadini italiani di razza ariana. Sarà proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree, possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore, essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici, banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione.
Con la Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica del 29 giugno del 1939 verranno imposte limitazioni e divieti anche all’esercizio della professione di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale. E la politica razzista del regime non coinvolgerà solo il popolo ebreo.
“L’accoppiamento con creature inferiori - scriveva Alessandro Lessona (ministro delle Colonie), su La Stampa del 9 gennaio 1937 - non va considerato solo per la anormalità del fatto fisiologico e neanche soltanto per le deleterie conseguenze che sono state segnalate, ma come scivolamento verso una promiscuità sociale, conseguenza inevitabile della promiscuità familiare nella quale si annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice”.
“Il razzismo - precisava Giorgio Almirante nel 1942 - ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore”.
Così conclude Almirante: “Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all'ebraismo: l’attestato del sangue”.
Meditiamo, compagne e compagni. Perché questo è stato. “Può accadere - ci ha del resto avvertito Primo Levi - e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; (...) è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, ‘utile’ o ‘inutile’, è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato (...) Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali”.
Primo Levi conclude: “Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono ‘belle parole’ non sostenute da buone ragioni (...) Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri ‘aguzzini’. Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso”.