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Nel 1918 l’Italia è in guerra e ha bisogno di sempre più munizioni. Nelle campagne lombarde vicino Bollate, arriva un’azienda straniera Sutter & Thévenot, che apre un suo stabilimento di produzione bellica. Centinaia di donne, soprattutto ragazze e bambine dalle dita sottili, vengono chiamate in fabbrica per sostituire gli uomini al fronte. La mattina del 7 giugno molte di loro perdono la vita in una terribile esplosione. Questa tragedia del lavoro è al centro del romanzo di Ilaria Rossetti, La fabbrica delle ragazze, uscito per Bompiani e oggi (12 maggio) al Salone Internazionale del Libro di Torino.
È una storia che già conosceva, o l’ha scoperta per caso e se ne è innamorata?
Non conoscevo la vicenda, ci sono un po' inciampata per caso, mentre ero alla ricerca di una nuova idea per il mio prossimo libro. Come spesso accade, avevo in testa alcune immagini molto astratte, delle suggestioni. Una in particolare, quella di un uomo con un dolore che non sa come affrontare e quindi decide di fare una cosa fuori dalle sue abitudini: prendere una barca e iniziare a navigare giù per il fiume. Era un'immagine che avevo in testa senza sapere bene perché e nel frattempo ho cominciato a leggere, a cercare, a perdermi un po' nelle storie, che è quello che faccio quando inizio a lavorare a un nuovo romanzo. Il lavoro è un tema che mi ha sempre interessato, non solo dal punto di vista della scrittura. Ho cominciato a interessarmi alla questione delle morti sul lavoro e mi sono imbattuta nella pagina di Wikipedia che citava anche l'incidente alla fabbrica di Castellazzo di Bollate. Mi è subito balzata agli occhi una cifra: 59 vittime. Un numero altissimo, il secondo incidente sul lavoro in Italia per gravità di morti a quel punto. Era il 2020, in piena pandemia, l’unico strumento di ricerca che potevo utilizzare era il web. Ho cominciato a reperire materiali su questa storia che mi sembrava di una gravità incredibile, con alcuni elementi che la rendevano peculiare. Il fatto che le vittime fossero soprattutto donne, che si fosse in piena prima guerra mondiale e per questo motivo subito dopo la tragedia la produzione andò avanti il più velocemente possibile. Che di questa storia se ne era occupato persino Hemingway, che aveva prestato soccorso alle vittime da giovane volontario della Croce Rossa.
Hemingway ha dedicato alla vicenda uno dei suoi “Quarantanove racconti”. Eppure, da un certo momento in poi, di questa tragedia nessuno parlò più, venne come seppellita.
A un certo punto l’unico riferimento storico, rispetto alla questione del lavoro femminile, è diventato il più famoso incidente alla fabbrica tessile Triangle di New York. E invece questo di Bollate secondo me può e deve essere considerato l’8 marzo italiano. Nonostante una delle voci più importanti del Novecento letterario mondiale come Hemingway ne abbia scritto, tutto passa in silenzio a causa della propaganda bellica che cerca di minimizzare perché non si vuole fiaccare il morale. Il racconto di Hemingway arriverà tardi in Italia, solo negli anni Cinquanta, sempre per colpa della censura fascista. Per molti anni, dunque, si interrompe la possibilità di tramandare la testimonianza. Ho saputo poi lavorando a questo libro che per esempio quasi nessuno raccontò in casa quello che era successo, un po' come succedeva ai sopravvissuti alla Shoah. Ci sono persone che non hanno mai detto niente, tranne alla fine delle loro vite. Quindi è mancata la memoria collettiva e anche quella individuale e familiare. Un rimosso veramente profondo che è stato recuperato solo grazie al lavoro fatto dal Comune di Bollate e dalla sua comunità negli ultimi quindici anni.
Non ha avuto la possibilità, nel corso delle sue ricerche, di risalire a testimonianze dirette lasciate sulla vicenda o venire in contatto con loro discendenti in vita?
So che ci sono dei nipoti ancora in vita a Bollate, ma sono persone molto anziane, quindi all'epoca non sono state in grado di raccontarmi la storia. Però mi sta succedendo in questi mesi che ogni tanto qualcuno mi scriva. Per esempio una signora il cui marito è il nipote di una donna sopravvissuta all’incidente, che si chiamava Rita. Fu ferita in testa da alcune schegge di granata, ma riuscì a riprendersi, si sposò ed ebbe figli e poi nipoti, tra cui questo signore. Leggendo il libro queste persone arrivano a me, e così si aggiungono sempre tasselli nuovi.
Dopo l’incidente la fabbrica non si fermò, perché si dovevano produrre munizioni per la guerra. In più le donne, sopperivano alla forza lavoro maschile chiamata al fronte.
Le donne diventano all'improvviso una forza lavoro necessaria, ma solo perché mancano gli uomini. Noi che nel 2024 abbiamo degli strumenti per ragionare su queste dinamiche, sappiamo che quello non è l'inizio di emancipazione, ma semplicemente il frutto di una necessità. Le donne all’epoca venivano considerate una forza lavoro di serie B e dunque già pagata molto meno rispetto a quella maschile. Ma da un giorno all’altro diventano fondamentali. Tantissime donne mettono piede nelle fabbriche per la prima volta, nel caso di Castellazzo sono soprattutto ragazzine. Anche perché servono delle mani piccole per maneggiare gli ingranaggi delle granate. Molte arrivano dalle campagne, quindi da famiglie e da contesti molto diversi da quello urbano e industriale. Arrivano in un mondo che ha regole prettamente maschili, dove non sono affatto rare le molestie, le aggressioni sessuali e dove, nonostante il lavoro femminile risulta necessario, continua a non essere ben visto dalla gran parte della società. Si percepisce una scollatura tra il ruolo che la donna “dovrebbe avere” e la partecipazione allo sforzo bellico che le viene chiesto.
Siamo all’indomani del primo maggio, quest’anno dedicato alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Secondo lei è possibile dare una lettura in chiave femminile della questione?
Ahimè purtroppo, dal punto di vista degli incidenti sul lavoro le statistiche sono piuttosto paritarie. Io allargherei il discorso al lavoro in generale. Nel senso che è indubbio che le condizioni in cui le donne lavorano sono estremamente poco moderne. Fanno ormai qualsiasi tipo di lavoro, anche quelli “da uomini”, ma continuano a essere responsabili della casa e della famiglia, che è poi la ragione per in poche occupano posizioni di leadership. Per non parlare del gender pay gap.
Tornano al romanzo, il linguaggio che lei ha adoperato mantiene una sfumatura di dialetto, che è profondamente diegetica, oltre che stilistica. Come ha lavorato alla costruzione della storia dal punto di vista della lingua?
Prima di tutto un lavoro rispetto alla concretezza della lingua italiana. Quello del romanzo è un mondo molto lontano da noi, al livello paesaggistico, lavorativo, sociale, ho tratteggiato dei personaggi che per esempio non hanno grandissime capacità espressive. Parlano poco e male, non hanno strumenti culturali abbastanza alti per raccontare quello che provano. Quindi mi serviva una lingua che fosse molto vivida, che si appoggiasse tantissimo sulle cose materiali, sui luoghi: la campagna, i fiumi, le strade battute in bici. I contadini dell’epoca nel dialetto milanese. Ho deciso di attenermi a quello parlato a fine Ottocento, inizio Novecento e però di sporcare i dialoghi. Ecco, di non usarlo in modo massivo, proprio per non rendere troppo difficile la lettura anche a chi non mastica il dialetto milanese. E soprattutto, puntando magari su espressioni che avessero una qualche potenze evocativa. E poi ho cercato di lavorare per sottrazione, per rendere l’idea di questo loro essere abbastanza taciturni.
Parliamo della foto di copertina: l’immagine vivida di una ragazza con gli occhi azzurri. Talmente presente da sembrare viva. Come l’avete scelta?
Per la copertina devo ringraziare assolutamente Bompiani. Dopo qualche tentativo, abbiamo deciso di optare per una fotografia che quasi non sembra fotografia. Tra l'altro è un’immagine contemporanea, uno scatto del fotografo americano Luke Brosway, che ritrae una ragazza di oggi, ma con un volto secondo me veramente senza tempo. Ci piaceva un po' giocare su questa possibilità di fraintendimento e con quel suo sguardo pazzesco, di una malinconia intensa, che sembra prenderti per mano ancora prima che tu apra il libro.