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È stato detto, ed è ormai un dato indiscutibile, che la crisi pandemica ha fatto sì che uscisse fuori dal cono d’ombra nel quale l’ordinamento e la distrazione della politica (e spesso dei media) l’avevano ricacciata, la condizione di centinaia di migliaia di persone che ogni giorno lavorano e producono ricchezza per il paese seppure in condizione di lavoro non standard. Non che il lavoro standard se la sia cavata benissimo, basti pensare alla riduzione reddituale nei periodi di cassa integrazione che ha falcidiato i redditi di tutti i lavoratori in particolare di quelli part time. Certo è, però, che sono emerse esigenze di tutela, le stesse che come Cgil chiediamo da anni di fornire per lavoratori e lavoratrici finora esclusi o addirittura neanche considerati tali, basti pensare al mondo dello sport, ma anche al volontariato obbligato, ai tirocini extracurriculari.
La pandemia ha avuto, quindi, un effetto disvelatore della condizione diffusa di precarietà nel mondo del lavoro italiano. Di fronte alle tante indennità (ben quindici!) varate dal governo (e da alcune Regioni) proprio per tentare di dare copertura alle figure non protette dalla cassa integrazione, il tema delle diseguaglianze è stato per qualche giorno sulla bocca e negli scritti dei grandi opinionisti del paese; ben presto, però, è uscito dalle prime pagine e ad emergere sono state le storie dei singoli, degli “sfortunati”; il problema, insomma, è passato da una dimensione politica ad una puramente spettacolare. Su questo ci sarebbe lungamente da discutere, sulla depoliticizzazione dell’informazione (anche di quella che si autodefinisce “politica”) e sull’adattamento (necessario?) della comunicazione, anche sindacale, per evitare la marginalizzazione da parte dei media sempre alla ricerca di una “storia”, se possibile commovente, da raccontare. Ma questa è un’altra discussione.
Per tornare a noi, il lavoro nel settore della cultura è caratterizzato dalla presenza di tipologie contrattuali le più varie, dall’autonomo occasionale (esentasse e senza contributi fino a 5000 euro annui) alla partita iva, alle collaborazioni coordinate e continuative. Inoltre, accanto ad una insufficiente presenza di personale pubblico, a cui dovrebbero essere affidate le funzioni ordinarie di conservazione, valorizzazione, fruizione del patrimonio artistico e documentale, testimoniata dai dati pubblicati lo scorso anno dall’Istat, permangono i problemi derivanti dal “volontariato” obbligato e dall’utilizzo di stagisti per coprire posizioni strutturali.
Se è noto che il settore della cultura genera circa 90 miliardi di Pil l’anno (circa il 6%) e altri 160 di indotto, dai dati della citata indagine Istat limitata a “I musei, le aree archeologiche, e i monumenti in Italia” emerge anche che nel 2017 si sono registrati 119 milioni di visitatori nelle quasi 5000 strutture espositive italiane con una concentrazione nelle grandi città d’arte e nei siti di maggiore attrazione turistica.
A fronte di tutto questo, le audizioni effettuate al Senato su “Volontariato e professioni nei beni culturali” ci restituiscono un quadro sul lavoro preoccupante: l’associazione Mi riconosci? in particolare, denuncia la presenza di circa 800mila volontari impiegati nel settore. Se poi si va nello specifico delle aree espositive, sempre secondo Istat, in musei e monumenti, che per due terzi sono di proprietà pubblica, erano impiegati circa 38 mila operatori nel 2017 a fronte del 45mila del 2015 e oltre 11mila volontari, circa 3 per istituto. A ciò si aggiunge la carenza di personale responsabile e qualificato: mancano per ben oltre la metà dei casi i direttori, gli addetti alla fruizione e vigilanza, alla sicurezza, ai servizi educativi e scolastici, addirittura alla contabilità; è evidente quindi che senza l’apporto del volontariato la gran parte delle istituzioni non potrebbe neanche rimanere aperta.
Nessuno disconosce il valore del volontariato e il sostegno che i volontari possono dare in un settore come questo ma questo dovrebbe valere per funzioni accessorie, per gestire specifiche campagne e attività straordinarie, non per coprire posizioni strutturali delle istituzioni. La legge Ronchey del 1993 permette, invece, alle associazioni di volontariato di assicurare l’apertura di istituzioni come archivi, biblioteche, musei tramite apposite convenzioni.
Tra convenzioni a carattere gratuito e concessioni onerose di servizi di biglietteria, assistenza, sicurezza, servizi accessori, nelle strutture pubbliche culturali si fa fatica a sapere se la persona che ti trovi davanti con il suo cartellino mentre guardi una mostra o visiti un’area archeologica, sia un dipendente pubblico, un volontario, un dipendente/collaboratore di una qualche cooperativa. Ma soprattutto non sai se per quell’attività, che ha appunto a che fare con il nostro straordinario e unico patrimonio culturale, quella persona sia o meno adeguatamente remunerata per il lavoro che fa al servizio della comunità.
D’altronde, che lo Stato negli ultimi decenni si sia ritirato dalle sue funzioni e abbia affidato, dove completamente dove parzialmente, a terzi funzioni proprie, senza spesso mantenere neanche un ruolo regolatore e di indirizzo, è un dato evidente: alla famiglia è stato consegnato l’onere della non autosufficienza, al privato in molte Regioni la gestione della sanità (con gli effetti che vediamo), dei servizi all’impiego e delle politiche attive, solo per fare alcuni esempi.
Emblematico in tal senso, è quanto avvenuto e da noi denunciato qualche anno fa, con gli scontrinisti della Biblioteca nazionale centrale di Roma: 22 “volontari” adibiti però ad attività assolutamente necessarie al funzionamento della struttura, come ad esempio gestione dei prestiti e delle riconsegne dei volumi, servizi di segreteria, pagati in base agli scontrini presentati, recuperati nei modi più fantasiosi, e utili a coprire il compenso pattuito. La Biblioteca Nazionale non era un caso isolato, tanto che nello stesso anno abbiamo potuto verificare fenomeni simili anche all'Archivio di Stato e alla Biblioteca di Archeologia e di Storia dell'arte di palazzo Venezia.
Una vicenda paradossale che dimostra come costruire vertenzialità e affermare il principio uguale lavoro uguali diritti si è rivelato per NIdiL assieme alle altre categorie della Cgil che sottoscrivono contratti in questo settore, un percorso particolarmente difficile e non senza ostacoli. Un esperimento di contrattazione in questo settore è stato portato avanti sul territorio fiorentino dove è stato raggiunto un accordo con alcuni tour operator per garantire condizioni più dignitose e certe per le guide turistiche, contrattualizzate con partita iva, a partire dai compensi.
Negli ultimi mesi si è costituito, inoltre, a livello confederale un gruppo di lavoro propedeutico alla realizzazione degli Stati generali della cultura che avranno al centro la valorizzazione del patrimonio artistico culturale del nostro Paese, anche attraverso il riconoscimento dei diritti e delle tutele per tutti i lavoratori. Ovviamente, in questo primo periodo, lo sguardo è stato rivolto più alla gestione delle emergenze e alle proposte per consentire ai lavoratori e alle lavoratrici del settore di “sopravvivere” durante la pandemia: da qui la richiesta, solo in parte raccolta dal governo, di non lasciare indietro nessuno in questo settore come in altri.
Per concludere, alle questioni più generali legate da una parte ad un mercato del lavoro in cui coesistono troppe tipologie di lavoro e che andrebbe “disboscato” delle forme più precarizzanti, e dall’altra ad un sistema di ammortizzatori sociali lontano dall’universalità delle “coperture” al di là della tipologia lavorativa, ci sono, come abbiamo visto, le peculiarità di un settore come quello della cultura. Ripartire dal lavoro, di qualità, allora, è l’unica scelta possibile: sostenere e non umiliare, attraverso le scorciatoie delle forme “lavorative” più fantasiose e spesso indecenti, le professionalità presenti in questo campo nel nostro Paese. Una scelta che potrebbe anche contribuire a ridurre la fuga all’estero di tanti giovani alla ricerca di migliori condizioni di lavoro e di vita.
Essere il Paese detentore del patrimonio culturale più ricco del mondo non può e non deve essere un “peso” (quasi una iattura) da dover gestire con mezzi impropri che mortificano chi lavora, ma una responsabilità rispetto alla sua conservazione e valorizzazione; ma anche una grande occasione di crescita per un turismo di qualità.
Perché, allora, non fare allora dell’investimento su questo settore uno degli assi centrali del piano nazionale nell’ambito del Next Generation Eu?
Andrea Borghesi è segretario generale NIdiL Cgil