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Tra il 7 e l’8 dicembre del 1946 si svolge a Milano, nella sede del Castello Sforzesco, il primo Congresso della cultura popolare. All’iniziativa promossa da Il Calendario del Popolo partecipano, tra gli altri, Antonio Banfi, Sibilla Aleramo, Gian Carlo Pajetta, Antonio Greppi, Giuseppe De Florentis, Antonio De Grada, Paolo Grassi e Guido Mazzali. Un appuntamento che viene ripetuto sette anni più tardi, dal 9 all’11 gennaio 1953 a Bologna con oltre mille partecipanti.
Uomini del mondo della cultura, sindacalisti, lavoratori e politici si riuniscono per discutere del sapere e dell’istruzione in Italia, dell’organizzazione della formazione intellettuale e delle strutture e strumenti necessari per la sua diffusione e sviluppo.
Per liberare le masse serve il sapere
Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, interviene sottolineando la concezione del sapere e della conoscenza come strumento di liberazione delle masse attraverso un discorso noto, bellissimo, che racchiude in sé tutta la sua enorme grandezza.
Amici, (…) La nostra Confederazione del lavoro ha nel suo programma, nel suo Statuto, fra i suoi compiti fondamentali quello di difendere e di sviluppare la cultura nelle masse popolari e lavoratrici, come mezzo essenziale di liberazione, non soltanto di liberazione spirituale dell’uomo, come mezzo cioè di liberazione dall’ignoranza, dalla miseria, dalla superstizione, dai pregiudizi, ma anche come strumento fondamentale di liberazione dall’arretratezza, dalla miseria, dalla povertà, dalla sporcizia, come strumento di elevazione intellettuale, morale, spirituale ma anche economica e sociale. (…) Per rendere a suo modo chiaro il significato della mia presenza a questo congresso, un giornale ha scritto una frase appositamente sgrammaticata per dire: «Ecco qualcuno che è veramente rappresentativo di coloro che non conoscono la lingua italiana e che sono al fondo dell’ignoranza al congresso della cultura popolare». Lo scopo è di tentare di rappresentare come estremamente basso il livello culturale di questo congresso della cultura popolare. Lo scopo è anche un altro, al quale accennerò brevemente. Bisogna che io dica che in questa ironia di giornali benpensanti, di giornali che esprimono gli interessi della classe privilegiata e dirigente della nostra società, c’è qualche cosa di fondato. Io effettivamente non sono e non ho mai preteso, non pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura popolare o non popolare. Però sono rappresentativo di qualche cosa. E di che cosa sono rappresentativo? Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere del nostro paese… quelle masse cioè alle quali le strutture sociali ingiuste ed inumane della nostra società negano la possibilità non solo della cultura, ma anche dell’istruzione elementare, e che ciò malgrado, però, vogliono, si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado che le loro capacità, le loro possibilità permettono di raggiungere, grado modesto ma che apre però la strada a nuovi e travolgenti progressi. Di questi strati delle masse popolari umili e povere io sono rappresentativo; di queste masse popolari a cui le classi dirigenti e sfruttatrici negano non soltanto ogni gioia ma anche il bene, la luce del sapere e che per merito proprio, per sforzi propri, vincono le tenebre dell’ignoranza, e si pongono alla testa del progresso, alla testa di ogni moto che porti avanti la nostra società, porti avanti tutta la società umana. Di questo io sono proprio rappresentativo.
Cultura, sindacato e lavoro
Tre anni più tardi, in occasione del III Congresso nazionale della cultura popolare (Livorno, 6-8 gennaio 1956), Ignazio Buttitta dedicherà alla memoria di Salvatore Carnevale il suo Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali.
Ancilu era e non aveva ali / non era santu e miracule facia / ncielu acchianava senza corde e scali / e senza appidamenti nni scinnia: / era l’amuri lu so capitali / e sta ricchhizza a tutti la spartia/ Turiddu Carnivali annuminatu / ca comu Cristu nni muriu ammazzatu .
Ciccio Busacca, visibilmente intimidito dalle luci e dal palco, recita lo scritto per un pubblico decisamente diverso dai passanti e curiosi dei paesi di Sicilia cui il cantastorie è abituato. È il trionfo per una delle creazioni più alte della poesia popolare in Italia, a pochi mesi dalla uccisione del protagonista. Tra il pubblico spiccano i nomi di Luchino Visconti, Cesare Zavattini, Carlo Levi. Quello stesso Carlo Levi che a Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, dedicherà alcune delle pagine più belle dei suoi scritti.