“L' operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone”. E’ il titolo di una commedia in due atti, e poi di un libro di Dario Fo, che è una dichiarazione d’intenti artistici. Una frase mutuata dal muro della Barbiana di don Milani e presa a prestito dal premio Nobel nel 1969, a ridosso della rivoluzione studentesca, solamente uno degli indizi dell’impegno da lui rivolto al mondo del lavoro, al mondo operaio.
Ed era alle prese invece con la rappresentazione di un altro mondo del lavoro, quello della realtà contadina, quando 25 anni dopo lo incrociai a Perugia, mentre era in procinto di allestire una commedia del Ruzzante al teatro Morlacchi.
Un incontro casuale e fortuito: mi trovavo nel capoluogo umbro per documentare le giornate di studio su di un altro gigante del teatro italiano, Carmelo Bene, quando, recatomi alla stazione per incontrare un collega ‘maestro’, vidi Fo scendere da un treno proveniente da Milano. Immediato il pensiero e il desiderio di fotografarlo, meglio all’interno di un teatro.
Riuscimmo a prendere accordi con Dario Fo e a incontrarci con lui al Morlacchi: gli chiesi di salire sul palcoscenico e, sullo sfondo di un teatro bellissimo, mi regalò, proprio come avrei voluto, una serie di quelle sue espressioni che hanno sempre caratterizzato la sua arte e che mi avevano catturato nella mia adolescenza, nelle sue prime apparizioni al grande pubblico, insieme alla moglie Franca Rame, rivelando il teatrante rivoluzionario che fu.