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Il 23 ottobre del 1956 circa 200 mila studenti e operai scendono per le strade di Budapest sfilando in solidarietà con i lavoratori polacchi di Poznan. La notte stessa il governo presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs viene sciolto, ma la formazione del nuovo governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del Paese. Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione e il giorno seguente Giuseppe Di Vittorio riceve la solidarietà di, tra gli altri, lo scrittore (già partigiano) Italo Calvino. “Commosso condivido tua posizione - recita il telegramma - indispensabile per salvare nostro Partito et causa socialismo”. All’VIII Congresso del Partito (quello comunista in cui militano tanto Di Vittorio che Calvino) tenutosi a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956, il delegato di Cuneo Antonio Giolitti denuncia l’impossibilità di continuare a definire legittimo, democratico e socialista ‘un governo come quello contro cui è insorto il popolo di Budapest’, definendo ingiustificabile l’intervento sovietico ‘in base ai principi del socialismo’. Sul finire di luglio Giolitti, date le reazioni del Pci alle sue affermazioni, sente che i margini di discussione all’interno del Partito sono diventati troppo ristretti e spedisce la sua lettera di dimissioni, pregando che sia pubblicata entro il 24 luglio. Esattamente una settimana più tardi, il 7 agosto, la stessa Unità pubblica la lettera di dimissioni di Italo Calvino, una lettera che l’autore medesimo definirà ‘d’amore’:
“Cari compagni - scrive nella prosa scorrevole ed incisiva che contraddistingue le sue opere Calvino - devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal Partito. Ho rinnovato la tessera del ’57 manifestando dissenso; questo dissenso non si è affatto attenuato col passare dei mesi, tanto che mi sono astenuto da ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa, perché ogni mio atto politico non avrebbe potuto non portare traccia del mio dissenso, e cioè costituire una nuova infrazione disciplinare dopo quelle già rimproveratemi. Insieme a molti compagni, avevo auspicato che il Partito comunista italiano si mettesse alla testa del rinnovamento internazionale del comunismo, condannando metodi di esercizio del potere rivelatisi fallimentari e antipopolari, dando slancio all’iniziativa dal basso in tutti i campi, gettando le basi per una nuova unità di tutti i lavoratori, e in questo fervore creativo ritrovasse il vigore rivoluzionario e il mordente sulle masse. Sono stato tra chi sosteneva che solo uno slancio morale impetuoso e univoco potesse fare del 1956 veramente l’anno del 'rinnovamento e rafforzamento' del Partito, in un momento in cui dalle più diverse parti del mondo comunista ci venivano appelli al coraggio e alla chiarezza. Invece la via seguita dal Pci, nella preparazione e in seguito all’VIII Congresso, attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, ponendo l’accento sulla lotta contro i cosiddetti 'revisionisti' anziché su quella contro i dogmatici, m’è apparsa (soprattutto da parte dei nostri dirigenti più giovani e nei quali riponevamo più speranze) come la rinuncia ad una grande occasione storica. In seguito ho sperato che il tradizionale centrismo della nostra Segreteria garantisse il diritto di cittadinanza nel Partito alle posizioni dei rinnovatori, come lo garantiva di fatto ai più radicali dogmatici. La linea seguita in questi mesi fino all’ultima riunione del Comitato centrale (particolarmente grave perché il momento poteva essere nuovamente propizio a un passo avanti, e nulla si è mosso) e la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di Antonio Giolitti (cui mi lega una profonda stima e una fraterna solidarietà) mi hanno tolto ogni residua speranza di poter svolgere una funzione utile pur ai margini del Partito".
"Ho fiducia nel movimento storico che porterà il socialismo, da una forma d’organizzazione accentrata e autoritaria, a forme di democrazia diretta e di partecipazione funzionale della classe lavoratrice e degli intellettuali alla direzione politica ed economica della società. È su questa via - prosegue lo scrittore - che il movimento comunista mondiale è spinto a risolvere i suoi problemi, con o senza soluzioni di continuità a seconda delle capacità di rinnovamento dei partiti comunisti dei vari paesi. È in questo senso che intendo continuare a volgere i miei orientamenti politici. (...) Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita: vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita del Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio campo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo m’è stata di sprone a cercar di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa; credo d’esser sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può esser garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori. Vorrei che, considerata la ponderatezza di queste mie dimissioni, mi si evitassero i colloqui previsti dallo Statuto, che non farebbero che incrinare la serenità di questo commiato. Vi chiedo di pubblicare questa lettera su l’Unità perché il mio atteggiamento sia chiaro ai compagni, agli amici, agli avversari. Vorrei rivolgere un saluto ai compagni che nei loro settori di lavoro lottano per affermare giusti principi, e anche a quelli più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi e al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano, dei quali continuerò a considerarmi il compagno”.
Ancora nel 1979 Calvino sente la necessità di fare i conti con il proprio passato: “Io sono uno di quelli che hanno lasciato il Partito comunista nel 1956-57 perché non si destalinizzava abbastanza in fretta - raccontava nel mese di dicembre a la Repubblica - Ma cosa dicevo quando Stalin era vivo e lo stalinismo era accettato senza discussione all’interno dei partiti comunisti? Ero o non ero stalinista anch’io? Il pathos rivoluzionario, l’ottobre rosso, Lenin, sono stati per me sempre fantasmi lontani, fatti successi una volta, irrevocabili quanto irripetibili. Ero entrato nella problematica del comunismo al tempo di Stalin ma per motivi di storia italiana, e dovevo fare un continuo sforzo per fare entrare nel mio quadro l’Unione sovietica. Delle democrazie occidentali m’ero fatto abbastanza presto l’idea d’un passaggio quanto mai sforzato e artificiale e imposto dal di fuori e dall’alto. Per l’Urss pensavo che fosse diverso, che il comunismo, passati gli anni delle prove più dure, fosse diventato una specie di stato naturale, avesse raggiunto una spontaneità, una serenità, una matura saggezza. Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo. Per questo nel Diario di un viaggio in Urss, che pubblicai nel ’52 su l’Unità, annotavo quasi esclusivamente osservazioni minime di vita quotidiana, aspetti rasserenanti, tranquillizzanti, atemporali, apolitici. Questo modo non monumentale di presentare l’Urss mi pareva il meno conformista. Invece la mia vera colpa di stalinismo è stata proprio questa: per difendermi da una realtà che non conoscevo, ma in qualche modo presentivo e a cui non volevo dare un nome, collaboravo col mio linguaggio non ufficiale che all’ipocrisia ufficiale presentava come sereno e sorridente ciò che era dramma e tensione e strazio. Lo stalinismo era anche una maschera melliflua e bonaria che nascondeva la tragedia storica in atto. I rombi di tuono del ‘56 dissolsero tutte le maschere e gli schermi”.