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Pubblicata il 10 novembre 2012 nelle pagine culturali de l'Unità, con il titolo “Quanto mi manca il genio di Pasolini”, nel corso degli anni sono rimasto particolarmente legato a questa intervista, che oggi è il tentativo di eludere quella retorica che Lawrence Ferlinghetti non ha meritato da vivo, figuriamoci ora che è morto, a pochi giorni dal compiere 101 anni: più di un secolo, vissuto sempre con lo spirito della sua poesia. La Beat Generation saluta l'interprete ultimo e unico, per dargli appuntamento da qualche altra parte .
Lawrence Ferlinghetti arriva al Caffé Trieste, dove Vallejo Street incrocia Columbus Avenue, in perfetto orario e insieme al suo giovane amico Jach Hirschmann, classe 1933, poeta laureato anche lui. Ferlinghetti di anni ne ha 93, ed è in attesa di un intervento al cuore. “Mi fotograferanno dentro”, scherza, forse cercando di esorcizzare qualche paura. La sua creatività ha dato vita alla casa editrice City Lights (il prossimo saranno sessanta anni dalla sua fondazione), e battezzato gli esordi di Jack Kerouack, Allen Ginsberg, Gregory Corso, e tutti gli altri. Ferlinghetti è il padre della Beat Generation senza mai essere stato un "beat", e l’interprete di una controcultura non soltanto americana di questo e lo scorso secolo. Prendiamo un cappuccino all’interno del locale, circondati da decine di immagini incorniciate in bianco e nero, che ritraggono tra gli altri un Francis Ford Coppola intento a scrivere il suo The God Father proprio al nostro tavolo. Il juke-box parte selezionando uno dopo l'altro Domenico Modugno, Nicola Di Bari, Roberto Murolo. Un viaggio senza tempo.
“Possiamo sederci fuori?”, chiede Ferlinghetti. “Stamattina c’è un sole meraviglioso qui a North Beach”. Accomodiamo le sedie all’angolo della strada. Un vecchio homeless si avvicina e incalza subito il poeta: “Hai fatto bene a rifiutare il premio letterario che voleva darti il presidente fascista ungherese. Ma io non ho la tua etica, e la prossima volta i 50.000 dollari accettali per me!”. I due si abbracciano, poi l’homeless continua il suo cammino. “Un vero artista di strada. Sopravvive qui da decenni. Bisogna portargli rispetto”.
Come si vive una vita in contatto quotidiano con la poesia?
La poesia per me è sempre stata sinonimo di anarchia, di quell’anarchia vissuta e creata giorno dopo giorno. Ed è sempre stata rivoluzionaria. Pochi giorni fa, il 2 novembre, è stato l’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, secondo me il più grande poeta italiano del secondo Novecento, che ho avuto la fortuna di tradurre per City Lights, come il mio amico Jack Kerouack. Ricordo ancora il Festival di Castelporziano, nel 1979, a pochi metri dal luogo del delitto Pasolini. Credevamo di essere stati invitati a una riunione tra pochi intimi, e invece venimmo investiti da microfoni e telecamere che ci chiedevano della sua morte. Rispondemmo che era stato un delitto fascista, e Alberto Moravia, che pure era stato suo grande amico, come gli italiani ben sanno, in quell’occasione non ebbe lo stesso coraggio. Ecco, per me Pasolini è stato un poeta rivoluzionario e anarchico, nel senso che intendo”.
Ora però viviamo in un nuovo secolo...
Sì, ma non è detto che siamo costretti a identificarci con lui. Vedi queste scarpe da ginnastica?
Sono bellissime. Verniciate a più colori.
Me le ha regalate mio figlio. Ha cinquant’anni, ma non è mai riuscito a “civilizzarsi”. Vive nei boschi, in una comunità, in mezzo alla natura. Non ha neanche un numero di telefono, né un televisore, figuriamoci un indirizzo di posta elettronica. Scelte di vita.
Beh, con tale padre sarebbe stato bizzarro il contrario...
In effetti non posso darti torto... (ride).
Però il mondo corre. E in America ci sono appena state le elezioni... (del 2012, n.d.r.)
Al di là di qualsiasi giudizio si possa dare della presidenza Obama, penso che i repubblicani in America siano sempre gli stessi, e non cambieranno mai: è dai tempi di Franklin Delano Roosevelt che tentano di smontare il meccanismo del New Deal, aggrappandosi ai poteri forti e alle corporazioni. I tempi cambiano, la storia cambia meno. Per fare un paragone con l’Italia, è un po’ quello che accadeva con la dittatura di Mussolini, e che periodicamente si cerca di riproporre anche nel vostro Paese, come in molti altri: chi governa il potere specula sulle spalle altrui, sulla fatica di chi lavora. Per fortuna gli Stati Uniti hanno bocciato Romney, l’uomo che minacciava venti di guerra a destra e a manca, e la sua pericolosa deriva. Per il momento sono stati arginati.
Parliamo di libri.
Per quel che mi riguarda posso parlare delle ultime scelte condivise con i miei collaboratori per le edizioni City Lights. Abbiamo selezionato alcuni scritti inediti di Angela Davis, e un recente studio sulla patafisica che approfondisce le teorie di Alfred Jarry, oltre che pubblicare un’accurata biografia dell’autore. Due soli esempi, credo sufficienti a dimostrare che la linea editoriale resta la stessa di sempre.
Signor Ferlinghetti, non vogliamo disturbarla ulteriormente...
Nessun disturbo, anche se a dir la verità tra poco avrei un altro appuntamento.
Possiamo congedarci con la lettura di una poesia? L’editore italiano minimum fax ha appena tradotto e pubblicato A Coney Island of the
Mind, una sua raccolta poetica del 1955. Quali versi sceglierebbe di leggere oggi?
Non so, forse alcuni tratti da I am waiting: “I am waiting for my case to come up, and I am waiting for rebirth of wonder…” (si interrompe per il suono delle campane della chiesa vicina). Devo fermarmi, stanno suonando le campane. Di certo non è un caso... Le campane suonano per ricordarci che l’ora della libertà scocca in ogni momento.
Lawrence Ferlinghetti saluta e mette in moto, inforcando un paio di occhiali scuri che vanno a coprire due occhi perennemente lucidi, azzurri e intensi come il mare che bagna la baia di San Francisco.