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Tra le vittime del Coronavirus c’è n’è una che ci lega tutti: il lavoro. La pandemia in corso impone uno sforzo di riflessione collettiva, il recupero di pensieri lunghi in grado di mettere in discussione le radici di questa tragedia: il modello di produzione capitalistico nella sua declinazione neoliberista. Lavorare spesso uccide. Lo ha fatto in un passato ancora impresso nelle carni vive del Paese e continua, altrettanto drammaticamente, a farlo nel presente. Un tempo i portuali usavano liberare un cardellino per controllare le condizioni di sicurezza. Nel tempo della competizione selvaggia, un uomo vale meno di un cardellino.
Oggi, come sempre nelle fasi più delicate della storia d’Italia, il sindacato e i lavoratori si sono fatti carico di “guidare” il Paese attraverso il “gorgo” della pandemia e dell’isolamento, garantendo la solidità di beni e condizioni materiali essenziali. Lo hanno fatto ammalandosi, mentre lavoravano. E lo hanno fatto scrivendo i protocolli sulla salute nelle aziende, che sono ancora oggi il frutto di un solido patrimonio, radicato nella storia del movimento sindacale italiano.
La messa in discussione della nocività degli ambienti di lavoro e la promozione della salute dei lavoratori prendono avvio con il ciclo di lotte che caratterizzano le vicende del secondo biennio rosso ’68-’69.
Se in passato le malattie erano causate in prevalenza da fattori naturali preesistenti nell’ambiente esterno e indipendenti dall’attività dell’uomo, che agivano intaccandone la salute, nella società italiana di metà ‘900, a prevalere sono invece malattie causate da fattori artificiali creati dall’uomo stesso. L’organizzazione scientifica del lavoro crea una svolta epidemiologica. Comporta, oltre alla fatica muscolare, un nuovo tipo di affaticamento di matrice psichica, la cosiddetta “fatica industriale”, i cui effetti iniziano a incidere pesantemente sulla sanità psicofisica dell’uomo, che difficilmente poteva essere misurata con i tradizionali strumenti di rilevazione.
“La salute non si vende”. Un nuovo paradigma sindacale
In questo contesto, il movimento operaio italiano, ed in particolare la Cgil, riescono ad interpretare urgenze sempre più pressanti. Si tratta di un processo lungo e impegnativo, che occupa tutto il corso del decennio sessanta e che presenta i caratteri della problematicità e della tortuosità, piuttosto che quelli della linearità. Per il maggiore sindacato italiano significa, infatti, la messa in discussione del proprio patrimonio culturale, il ripensamento radicale delle proprie convinzioni e pratiche in tema di salute, medicina, sviluppo tecnologico e organizzazione del lavoro.
La Cgil sviluppa, in questi anni, una riflessione che sulla questione salute inizia a dare priorità al punto di vista soggettivo dei lavoratori e alla prevenzione. Abbandonando una prassi contrattuale che, a fronte del danno fisico, richiedeva il risarcimento monetario, il sindacato sceglie così di puntare su una pratica di non monetizzazione. L’intervento doveva concentrarsi sulla prevenzione per evitare il danno fisico, spostando il piano del ragionamento a monte del disagio.
Si impone una vera “rivoluzione copernicana”: non è più l’uomo a doversi adattare al lavoro, ma è il lavoro che deve essere modificato a favore del lavoratore. Gli operai iniziano a non delegare più ai tecnici l’individuazione dei fattori nocivi dell’ambiente di lavoro. Cambia il ruolo del medico o del tecnico, a cui in precedenza ci si affidava completamente e, delegando l’intera costruzione dell’inchiesta. La loro valutazione, da questo momento in avanti, dovrà confrontarsi con quella dei lavoratori, che quotidianamente vivono sul posto di lavoro. Sul piano produttivo, la valorizzazione del punto di vista operaio va così a confutare la pratica padronale di considerare l’uomo come una semplice variabile da adattare al lavoro, e costruisce un’elaborazione teorica alternativa.
L’impronta di quella stagione continua a vivere nelle lotte di oggi, nella centralità che il movimento sindacale ha saputo, ancora una volta, interpretare come soggetto fondamentale per la vita democratica del Paese.