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Nicola Lagioia ha di certo un rapporto particolare con il Salone internazionale del Libro di Torino, a cui è fortemente legata la sua carriera di scrittore, coronata dalla vittoria al Premio Strega nel 2015 con il romanzo “La ferocia” (Einaudi). Lo è ancor più da quando ne è diventato direttore artistico dal 2017, anno in cui la “fronda” dei grandi gruppi editoriali, che cercarono di favorire la nascita di una nuova kermesse a Milano, misero a dura prova la tenuta della manifestazione più importante nel panorama della cultura italiana. Dopo un paio di edizioni di consolidamento, quest’anno l’emergenza sanitaria ha di nuovo messo a dura prova l’organizzazione dell’evento, prima rimandato, poi realizzato attraverso la proposta al suo numeroso pubblico di affezionati di oltre sessanta eventi in connessione, nel corso dei giorni inizialmente previsti dal programma. Un’esperienza che ci permette di approfondire con Lagioia anche alcuni aspetti più generali riguardanti il mondo del lavoro culturale, e lo stato di salute del libro.
Facciamo un passo indietro di qualche settimana, e torniamo all’edizione da poco conclusa del Salone internazionale del Libro. Che tipo di esperienza è stata?
Una vera e propria follia, risolta in maniera miracolosa, in un periodo a dir poco assurdo. Dico miracolosa perché a un certo punto non si voleva neanche fare più, ed è praticamente nato tutto dalla chat del nostro gruppo di lavoro, nella quale appariva evidente ogni giorno che ci avvicinavamo alla fatidica data del 14 maggio, quella dell’inaugurazione, che eravamo sempre più depressi... Così abbiamo cominciato a pensare “facciamo qualcosa”, almeno a livello simbolico. Da lì è partita l’idea della lezione di Alessandro Barbero nella Mole Antonelliana. La disponibilità dello storico e l’autorizzazione all’utilizzo della Mole sono stati il primo passo da cui è partita la spinta, ci siamo fomentati, e abbiamo cominciato a invitare autori quali Javier Cercas, Annie Ernaux, Salman Rushdie.
Abbiamo anche subito compreso che per mettere in pratica le nostre idee starebbe stato determinante il sostegno economico degli imprenditori privati che di solito partecipano al budget del Salone, alcuni dei quali con l’emergenza sanitaria non è che se la passassero troppo bene... Ma hanno pensato di rilanciare, dando un segno di vitalità, mettendo a disposizione tecnologie fondamentali per creare una piattaforma solida e affidabile in rete, così da realizzare incontri video a distanza, con il supporto decisivo dei traduttori. Gli ospiti si sono così moltiplicati, abbiamo ottenuto la presenza anche di Jospeph Stiglitz e di Samantha Cristoforetti, solo per fare altri due nomi, e tutti gli altri contattati ci hanno confermato la loro presenza, partecipando con il loro contributo alla realizzazione di un evento sicuramente sui generis... E per concludere in bellezza, la serata finale si è trasformata in una vera e propria serata televisiva.
Dunque alla fine un bilancio positivo...
Assolutamente. Abbiamo avuto tanti collegamenti, tanti messaggi di incoraggiamento, c’è stata con il nostro pubblico un’interazione empatica. Insomma, è andata talmente bene che molti ci chiedono di fare entrambe le cose, cioè ogni anno periodicamente organizzare l’evento anche in questo modo qui, oltre al classico appuntamento “fisico” di maggio a Torino, perché in questo modo si possono raggiungere autori che altrimenti non avrebbero potuto partecipate, e si possono raggiungere visitatori che non possono venire al Salone per motivi di età, di lavoro, di salute.
Immagino sia stata l’occasione anche per riflettere su quanto e come stia cambiando il mondo del libro, e della cultura in genere, con l’avvento di questa pandemia.
Secondo me si arriverà a un mondo anfibio, dove comunque il contatto reale rimane fondamentale; ma al contatto reale si aggiungeranno nuove forme di “aggregazione”, soprattutto in alcune dimensioni del lavoro. Ne ho avuto prova proprio preparando questa edizione del Salone, dove in pratica abbiamo organizzato tutto in meno di 20 giorni, lavorando anche di notte, senza dormire, facendo anche 10 ore al giorno di riunioni, suddividendoci in diversi gruppi, un massacro anche dal punto di vista fisico. A un certo punto di questo delirio mi sono reso conto da una parte che radunarci tutti fisicamente sarebbe stato impossibile; dall’altra, che molte delle riunioni fatte, anche in un mondo tornato “normale”, sarebbe meglio continuare a farle così. Voglio dire che per la nostra tipologia di lavoro esiste una fase di ideazione, dove vedendoci per riunioni “vere”, prima di andare a mangiare e bere insieme, nascono le idee. E poi esiste una fase operativa, durante la quale si può tranquillamente lavorare da remoto, per velocizzare alcune dinamiche, e inquinare di meno. Credo da questo punto di vista qualcosa stia cambiando.
Molti si interrogano sulle sorti del libro.
Il libro rimane lo stesso, così come la sua fruizione; e la riduzione di vendite che il mercato subirà in questo periodo è chiaramente commisurata ai problemi economici delle persone, che hanno meno soldi in tasca. Ma il libro è una cosa talmente solida che rimane la stessa cosa, lo stesso oggetto, perché al di là dei soldi rimane il bisogno di leggere. Poi non so dire se questa esigenza aumenterà oppure no, non so se questo virus sia davvero portatore di un diverso sentire. Di sicuro questo virus ci ha fatto capire che il mondo è qualcosa di complesso, e per me l’immagine di un libro è sempre stata costituita da una magica mescolanza di complessità e bellezza.
L’ultima domanda allo scrittore Lagioia. Einaudi sta per pubblicare una nuova edizione dei romanzi di Cesare Pavese, e tra i vari lei ha scelto di scrivere la prefazione a “Tra donne sole”. Come mai proprio questo libro?
Si tratta di un romanzo breve pubblicato insieme ad altri due romanzi brevi, “Il diavolo sulle colline” e “La bella estate”, in un volume che segnò la consacrazione della vocazione letteraria di Pavese con il Premio Strega del 1950, poco prima del suicidio. E il suicido e il pettegolezzo sono i due estremi entro cui si muove la storia, quasi preannunciando quello che sarà l’ultimo capitolo della sua esistenza, sullo sfondo di una Torino sorprendente e crepuscolare, che ho imparato a conoscere in questi anni. Inoltre possiede la capacità di descrivere in maniera unica il senso di incomunicabilità e l’impossibilità di vivere, tipici della nostra epoca. Dati i tempi, un libro di una contemporaneità sconvolgente.