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Gli effetti del distanziamento individuale praticato durante la pandemia – e che hanno portato a una prolungata chiusura di biblioteche e librerie – hanno accentuato alcune criticità di cui il mondo del libro e della lettura già soffriva e che erano il risultato di profonde trasformazioni manifestatesi nel corso dell’ultimo ventennio.
Ne cito qui alcune: le basi sociali della lettura in Italia restano molto più ristrette in confronto ad altri Paesi paragonabili al nostro e gli indici di lettura sono fermi da decenni intorno al 40% della popolazione; la ‘tascabilità’ di Internet con la connessione in mobilità ha radicalmente mutato il nostro rapporto con la rete e riempito gran parte del nostro tempo; il calo di fatturato del comparto editoriale (sceso nel periodo 2010-16 da 3,5 a 2,7 miliardi di euro) è stato in gran parte attribuito alla crisi dei consumi che ha colpito anche l’Italia dopo il fallimento della Lehman brothers, facendo passare in secondo piano un altro dato e cioè il fatto che il vero crollo dei lettori si è concentrato nelle due fasce d’età 11-14 (dove si sono persi 14 punti percentuali) e 15-17 (12 punti in meno), a fronte di una perdita media di 6 punti percentuali; frattanto non cresceva di molto la lettura di e-book; alcuni segnali di ripresa che si sono manifestati negli ultimissimi anni si possono riassumere nella vendita di un maggior numero di copie sempre alle stesse persone e non in un incremento del numero dei lettori; anche la decantata App18, che in cinque anni ha fatto arrivare a due milioni e mezzo di ragazzi 1 miliardo e 270 milioni di euro e che ha dato ossigeno alla filiera del libro, non ha prodotto un significativo incremento della quota dei lettori in quella generazione.
Mi sembra dimostrato che il cambiamento in atto non aveva solo un carattere congiunturale e non era neppure il risultato di una migrazione interna al mondo librario, lungo la rotta che va dal libro analogico a quello digitale, ma che si stava verificando uno spostamento dai libri e dalla lettura in direzione di altri consumi mediatici. Direi che invece ci si è accontentati della spiegazione più ovvia.
Risulta invece del tutto evidente che le trasformazioni avvenute nell’ultimo decennio sono assai profonde, molto probabilmente irreversibili e in gran parte determinate dal modo in cui la rete incide sui comportamenti delle persone: vale per tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana, vale per la produzione e fruizione della cultura, vale ovviamente anche per la lettura. Il web non è un canale che si è aggiunto a ciò che esisteva già, ma è l’ambiente al cui interno si svolge la nostra esistenza. Del resto, il wi-fi è nell’aria che respiriamo.
Questa era grosso modo la situazione alla fine di gennaio del 2020, quando il Coronavirus ha scaraventato la scuola, la lettura, l’informazione, le relazioni interpersonali, tutta la nostra esistenza in una dimensione diversa, in cui esistevano solo la nostra abitazione e le applicazioni di rete.
Sulla base di quanto detto finora, credo si possa dire che non siano sufficienti le misure, pur indispensabili, di sostegno alla domanda e alle imprese, che nella migliore delle ipotesi potrebbero consentire un ritorno alla situazione precedente, ma senza intaccare in alcun modo le ragioni su cui poggiava una crisi profonda. Qualcosa è stato già fatto dal Governo e alcuni provvedimenti sono previsti per l’immediato futuro. Ma non basta.
Il mondo della lettura ha bisogno di azioni che abbiano un respiro progettuale diverso, se vogliamo conservare anche nel mondo che verrà la ‘cultura della complessità’, propria del libro, e indispensabile per un uso consapevole del digitale e per attivare processi formativi di qualità.
Faccio solo un paio di esempi.
Andrebbe incoraggiata – anche mediante contributi a fondo perduto – la sperimentazione di prodotti editoriali innovativi, capaci di sfruttare pienamente le potenzialità delle tecnologie digitali, inglobando al proprio interno gli strumenti della multimedialità, della ipertestualità e della realtà aumentata; forse non sarebbero ‘libri’ e gli utilizzatori non sarebbero ‘lettori’, ma potrebbero essere realizzati ‘oggetti’ di interesse per una fascia di pubblico che oggi rimane al di fuori del perimetro della lettura.
Accanto al mondo della produzione, forse dovrà cambiare qualcosa anche nei modelli di business di chi vende i libri. Forse il futuro è in una modalità di fruizione che ha già rivoluzionato il mercato della musica e dell’homevideo, trasformando profondamente il rapporto fra ‘possesso’ e ‘accesso’ e tra ‘offerta’ e ‘uso’; esistono già esempi della fruizione di libri in streaming e non escludo che, lo si voglia o no, questo sistema si possa affermare, perché è molto competitivo rispetto alle tradizionali forme di acquisto e fruizione (non occupa spazio, costa poco, consente un accesso praticamente illimitato a oggetti che non si deteriorano con l’uso) ed è perfettamente coerente con gli stili di vita cui la rete ci sta abituando.
Ma uno sforzo di immaginazione ancora più ardito riguarderà i contesti ambientali che si determineranno, per capire se in un nuovo sistema delle pratiche culturali ci sarà posto per la lettura. È un ordine di questioni che tira in ballo le responsabilità della classe dirigente del Paese, fatta non solo da chi ha compiti politico-amministrativi o di governo dell’economia, ma che coinvolge anche altre figure che concorreranno a disegnare il futuro – si pensi ai sociologi e agli urbanisti –. Anche dalle loro scelte dipenderà se nelle nostre vite future continuerà ad esistere qualche pezzo della nostra vita analogica precedente: mi riferisco in particolare alla ‘forma’ delle città italiane ed europee, alle piazze e ai quartieri, al tessuto dei luoghi di incontro che hanno caratterizzato per secoli il nostro modo di intendere e di abitare le città.
Perché è evidente che l’esperienza del distanziamento individuale lascerà segni profondi nelle nostre abitudini di vita, nella mobilità, nel modo di relazionarci al territorio. Su quale infrastruttura si reggerà la nostra esistenza? Ci aspetta una totale de-urbanizzazione? In che direzione si evolverà la smart city di cui tanto si parla da un po’ di tempo? Come si realizzerà un’interazione di tipo nuovo fra gli esseri umani e l'ambiente costruito?
Per calare questi interrogativi sul nostro piccolo mondo, si tratta di capire se – evitata la totale desertificazione del panorama urbano e garantita la sopravvivenza di alcuni esercizi commerciali di prossimità – il futuro possa vedere un calo della capacità di aggregazione dei grossi centri commerciali e riservarci una rinascita della vita dei quartieri, in cui la gente si sente più sicura e si muove a proprio agio: questo scenario, per esempio, potrebbe fornire una chance interessante alle strutture caratterizzate da una forte connotazione territoriale, come le piccole librerie indipendenti a gestione familiare e le biblioteche pubbliche di base.
Certo, le incertezze e gli interrogativi prevalgono sulle sicurezze, ma se non ci poniamo queste domande difficilmente riusciremo a partecipare alla costruzione del nostro futuro.
Giovanni Solimine è professore ordinario di Biblioteconomia e di Culture del libro, dell’editoria e della lettura presso l’Università di Roma La Sapienza. È presidente onorario del Forum del libro. Dal 2017 presiede la Fondazione “Maria e Goffredo Bellonci”