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Come fosse un riconoscimento dettato dalla storia, in questo 2021 non si celebra soltanto il centenario del Partito comunista italiano, ma anche i 50 anni del quotidiano il manifesto, nato come rivista nel 1969, anno della “cacciata” dei dissidenti dai quadri del partito. Da qui la composizione del libro “La fabbrica del Manifesto. Il decennio rosso 1969/1979” (manifestolibri, pp. 231, euro 22), raccolta di scritti che documenta e testimonia la battaglia politica e le molte trasformazioni sociali avvenute in un periodo decisivo nella storia dell’Italia del secondo Novecento.
Il volume è curato da Luciana Castellina e Massimo Serafini, diversamente protagonisti di quel tempo vissuto e già allora da entrambi raccontato, ora autori di una comune introduzione e dei due interventi che preparano alla lettura di una serie di articoli, tra la cronaca e l’approfondimento, suddivisi in sette capitoli (Memorie, Cronache dalle fabbriche, Dibattito sulla rappresentanza operaia, Il confronto politico-sindacale, Le conferenze operaie, 1980 La sconfitta alla Fiat, Lotte sociali), conclusi da un significativo post scriptum affidato a Filippo Riniolo, giovane pittore e artista contemporaneo, dal titolo “Noi che veniamo da quella storia”.
Ciò che emerge è una cronaca del tempo per nulla retorica, capace di restituire l’atmosfera unica di quegli anni attraverso una narrazione a più voci dei fatti di allora, determinati anche da un contesto internazionale che ebbe chiaramente una forte rilevanza (indicativo il brano su “l’Europa selvaggia” di Castellina dell’ottobre-novembre 1969), soprattutto per tre avvenimenti storici: l’invasione americana in Vietnam, il fascino della rivoluzione culturale in Cina, il testamento rivoluzionario del Che subito dopo la sua morte.
Ma l’importanza del decennio Settanta in Italia è definita dalla sua singolarità, a partire proprio dalla sua durata, un arco temporale dilatato rispetto ai contemporanei rivolgimenti cui si assisteva in Europa e in Occidente. Una specificità italiana che Serafini ben spiega nel suo scritto: “Nel nostro paese si instaurò, pur fra mille resistenze, un rapporto fra il nuovo che le lotte studentesche e operaie venivano proponendo e la grande forza accumulata dal movimento operaio e sindacale italiani, prima nella resistenza al nazifascismo e poi nelle lotte del primo dopoguerra”.
Volendo indicare due momenti, uno di avvio l’altro di conclusione del periodo considerato, si deve ricordare l’assemblea convocata presso l’università di Milano alla fine del mese di marzo del 1968, quando gli studenti presero coscienza della necessità di estendere, o meglio dell’aver già esteso oltre i loro orizzonti la proprio protesta, guardando alla realtà delle fabbriche e alla rivendicazioni operaie. Venne così a crearsi un flusso continuo, un connubio sociale che percorse l’intero decennio, dallo Statuto dei lavoratori alle battaglie per divorzio e aborto, partecipe degli entusiasmi e le contraddizioni del movimento del ’77, fino a esaurirsi in forma clamorosa con quella passata agli annali come la marcia dei 40 mila, i colletti bianchi della Fiat che manifestarono contro la chiusura dei cancelli imposta dallo sciopero operaio.
Un passaggio cruciale che simbolicamente segna la fine di un’epoca, rilevato già il giorno dopo da un lungimirante articolo di Valentino Parlato per l’edizione de il manifesto del 15 ottobre 1980: “La manifestazione dei “capi” ieri a Torino, è stata imponente e seria; con tutta probabilità sulla giornata di martedì 14 ottobre 1980 torneremo a ragionarci per anni. Sottovalutarla o, peggio, demonizzarla, sarebbe solo un tragico ripetere errori già commessi dal movimento operaio .
Il commento di Parlato si sofferma più avanti su una riflessione anche in questa caso rivolta al futuro, chiamando in causa il sindacato: “Il movimento sindacale italiano, più di ogni altro movimento sindacale europeo, è stato attento a “ceti medi” e “politiche di alleanza”. Eppure - si obietterà - in nessun altro Paese d’Europa c’è stata una così ampia e clamorosa manifestazione antisindacale e non fascista. Forse - come alcuni vanno dicendo - la novità è che la politica di alleanze ormai si può sviluppare solo su orizzonti del tutto diversi da quelli della tradizione”.
Oggi possiamo constatare come le cose siano andate effettivamente così, e quanto un certo patrimonio, politico e culturale, sia disperso del tutto, o quasi. Perché è ancora possibile osservare movimenti e iniziative che, più o meno consapevolmente, provengono da quelle battaglie, da quelle lotte. Da quella storia. Filippo Riniolo chiosa in questo modo: “Forse a un ragazzo che oggi ha poco più di trent’anni è utile conoscere che alcune caratteristiche delle battaglie femministe e lgbt o antirazziste che vive hanno proprio origine in fabbrica in un preciso momento storico. E che quelle lotte non sono né impossibili né troppo altro da noi”.