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La realtà dello sfruttamento delle braccianti riguarda tutto il territorio nazionale. Contrariamente alla percezione diffusa che lo sfruttamento si verifichi solo nel Sud del paese, gli studi sul campo mostrano che gravi forme di sfruttamento esistono anche al Centro-Nord. Questa falsa percezione fa parte della «invisibilità» dello sfruttamento lavorativo delle donne, che le ricerche recenti hanno parzialmente contribuito a disvelare, ma che resta una realtà largamente sommersa. Infatti la presenza femminile tra le operaie agricole viene di fatto registrata solo laddove esistono attività specificamente volte alla identificazione di situazioni di grave sfruttamento, presenti in Veneto ma non in altre realtà del settentrione. Una presenza significativa di operaie agricole gravemente sfruttate è ben documentata in Veneto, dove esiste un’attività di outreach coordinata dall’Ispettorato del Lavoro, che ha coinvolto gli enti antitratta e le mediatrici culturali, e dove è stata registrata la presenza femminile sia nella raccolta, sia nel confezionamento.
Per contro, non sono state rilevate lavoratrici agricole in situazione di sfruttamento in Lombardia. In Emilia Romagna, nella zona di Cesena e Forlì, le donne – prevalentemente di nazionalità rumena e albanese – sono impiegate nella raccolta della frutta e nel confezionamento, nelle cooperative di allevamento e nel confezionamento delle uova. In Toscana, nella zona a sud di Prato, intere famiglie cinesi hanno sostituito i contadini italiani. Le notizie sulle braccianti nel Lazio sono frammentarie. La presenza femminile non emerge in modo diretto; tuttavia da ricerche sul campo si apprende che sono presenti nelle campagne donne indiane, marocchine, tunisine, e provenienti dall’Africa Sub-sahariana.
Per quanto riguarda la situazione delle braccianti nelle regioni del Sud, le informazioni sono più precise, anche grazie all’attività delle sindacaliste della Flai Cgil, oltre che degli enti anti-tratta. Nella Piana del Sele è stata rilevata la presenza di braccianti italiane, rumene, bulgare, marocchine, nonché provenienti dalla Nigeria e dalla Guinea, impiegate nella raccolta e nell’industria conserviera. Nelle Puglie, nel brindisino, lavorano braccianti italiane e comunitarie stanziatesi da tempo. Nella zona di Cerignola le donne sono impiegate soprattutto nel confezionamento e imballaggio di prodotti orticoli. La presenza di donne di varie nazionalità è stata registrata negli insediamenti informali della Capitanata e sia pure in piccoli numeri anche in Salento. Molte donne si spostano quotidianamente dalla Puglia e dalla Campania nel Metapontino per la raccolta delle fragole. Qui vi è anche una comunità rumena stanziale.
In Calabria, nella zona di Gioia Tauro, sono impiegati soprattutto braccianti africani, e la presenza di donne non è mai stata registrata direttamente. Nella Piana di S. Eufemia è stata rilevata la presenza di lavoratrici marocchine e dell’Est europeo, soprattutto bulgare e rumene. Alcune donne nigeriane, già sfruttate sessualmente, sono impiegate in agricoltura e nel piccolo commercio di prodotti tradizionali.
Molte/i braccianti di origine africana si spostano stagionalmente in Puglia e in Campania per la raccolta del pomodoro, e in Piemonte per la raccolta della frutta. Nella Piana di Sibari, con un flusso stagionale da e per il Metapontino, le donne sono occupate nelle raccolte estive. In Sicilia, una consistente presenza di donne è stata registrata nella «fascia trasformata» in provincia di Ragusa. In base a dati INPS, nel 2017 le operaie agricole straniere era in quella provincia oltre tremila, tra cui in misura importante le rumene. Recentemente è stata registrata la presenza di donne maghrebine e tunisine, e nella cittadina di Delia anche di donne rumene soggette a pesanti forme di sfruttamento da parte dei caporali che provvedono ai trasporti.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS) ha stimato in 160.000 il numero dei lavoratori e delle lavoratrici in condizioni di vulnerabilità. Le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto indicano in 180.000 il numero dei lavoratori e delle lavoratrici a rischio di sfruttamento. Se si rapporta a queste stime l’incidenza approssimativa della manodopera femminile in agricoltura (32%), si perviene a un’ipotesi di stima della componente femminile soggetta a sfruttamento che va dalle 51.000 alle 57.000 unità20. Si tratta dunque di una realtà numericamente consistente, e fino a poco tempo fa quasi del tutto ignorata. Le ragioni di tale persistente invisibilità sono molteplici, e non riguardano unicamente le donne.
La «normalizzazione» dello sfruttamento dei/lle stranieri/e è indotto dalle politiche migratorie restrittive, e dalla retorica anti-immigrazione che privilegia l’approccio sensazionalistico sugli sbarchi e le «invasioni», depistando l’attenzione dalle condizioni di sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici che si trovano in Italia, talvolta da diversi anni, in situazione di irregolarità o comunque di assenza di tutele.