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Ultima settimana di scuola prima delle vacanze natalizie, periodo in cui un piccolo bilancio di come stiano andando le cose durante l’anno scolastico più o meno viene fatto, anche al di là delle questioni da porre nei vari consigli di classe o collegio docenti, o alla vigilia dello scrutinio di fine quadrimestre. Un bilancio che pensi alla scuola non soltanto come voti da inserire o schede da riempire ma ancora, e soprattutto, all’importanza dei rapporti umani, malgrado i tentativi sempre più frequenti di trasformare la scuola in qualcosa di diverso.
Per esperienza diretta, colpisce ad esempio quanto stia accadendo in questi giorni in varie aule italiane dopo i risultati del recente Concorso per l’immissione in ruolo degli insegnanti di sostegno, le cui nomine stanno stravolgendo in tempo reale qualsiasi programmazione, non soltanto didattica, organizzata a settembre per incontrare le necessità di allievi e allieve certificate da relativa documentazione.
Prendiamo la mia classe, nella quale l’insegnante di sostegno da quasi due anni, sin dalla prima media, lavora con un’alunna la quale, al di là dei referti medici, ha bisogno soprattutto di essere accompagnata, sostenuta, motivata, oltre che aiutata nella comprensione di un testo o di un’operazione matematica. Si è creato così nel tempo un rapporto di fiducia, divenuto affetto reciproco; la collega è una figura di riferimento per la nostra studentessa, e una confidente anche nel delicato incastro famigliare, dove un fratello un po’ ingombrante occupa troppo spazio, a volte messo al centro dell’attenzione da genitori alla ricerca di un equilibrio quotidiano.
Pochi giorni fa la collega annuncia in sala professori la nomina, ma il suo viso non mostra quella felicità che ci si attenderebbe per un traguardo finalmente ottenuto, dopo anni di precariato. Il motivo è semplice: l’Ufficio scolastico regionale le chiede in fretta e furia di compilare la lista degli istituti preferiti, tra i quali non può essere inserita la nostra scuola, essendo le cattedre di riferimento già assegnate e non vacanti. Il risultato è quello di doverci salutare subito, ma soprattutto di dover comunicare il tutto alla nostra, alla sua amata alunna.
Le conseguenze di questa situazione, ai confini della realtà, sono facilmente intuibili e già stanno producendo i loro effetti, lasciando una studentessa disorientata e di nuovo chiusa in sé stessa dopo tanto lavoro svolto in questo senso dall’insegnante, e una famiglia altrettanto sperduta, oltre che piuttosto arrabbiata con l’intero sistema scolastico, ancora una volta non in grado di garantire alcuna continuità non solo didattica ma, per l’appunto, anche umana. Un’umanità di cui nel mondo della nostra scuola si tiene conto sempre meno, ogni giorno di più. In tutto questo la collega deve preparare armi e bagagli, far finta di nulla, sopire le proprie, di emozioni, per ricominciare tutto daccapo chissà dove, chissà con chi, e chissà quando, che non è proprio un dettaglio.
Mentre di questo ci parla la scuola vera, la scuola reale, quella fatta di anime e corpi, nel suo discorso conclusivo alla pacchiana kermesse di Atreju, in un passaggio Giorgia Meloni ha pubblicamente ringraziato il ministro Giuseppe Valditara, perché “sulla scuola stiamo facendo un lavorone”: alla luce di questa storia, e al netto degli stipendi più bassi d’Europa, delle tredicesime appena tagliate, dei milioni di euro messi a disposizione di chi vorrà iscrivere i figli in istituti tecnico-professionali (meglio se privati o paritari), viene da chiedersi nello specifico cosa intenda per “lavorone” il/la Presidente del consiglio.
Forse ci siamo persi qualcosa. O forse no.