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L’editoriale del primo numero de Il manifesto - non firmato - dal titolo “Per un lavoro collettivo” rappresenta la linea programmatica della rivista e del gruppo stesso. Nel testo si legge:
Questa pubblicazione nasce da un convincimento, che pensiamo non solo nostro: il convincimento che la lotta del movimento operaio, la storia stessa del movimento, sia entrata in una fase nuova; che molti schemi consacrati di interpretazione della realtà e molti modi di comportamento siano saltati senza rimedio; che la crisi sociale e politica che ci circonda non possa essere vissuta e fronteggiata con la normale amministrazione. (…) Né il ripiegamento dogmatico né la fiducia nella spontaneità, né l’indulgenza per le proprie abitudini né la presunzione di gruppo, possono aiutarci. La via che le cose stesse suggeriscono è piuttosto quella di una dialettica aperta all’interno di tutto il movimento, di un massimo di circolazione delle idee, per modeste che siano, di un più vero lavoro collettivo, senz’altra limitazione che quella imposta dalla responsabilità e dalla coscienza di ciascuno. Una via da percorrere ritrovando tutto il senso della milizia politica, al di fuori dei condizionamenti tattici e degli equilibri di potere, senza cedere allo scoraggiamento per la disparità tra i compiti che si affrontano e le forze di cui si dispone. (…)
Su un terreno più direttamente politico, avanza con forza il problema di una verifica e di un rinnovamento coraggioso degli schemi strategici, della pratica politica, dei moduli organizzativi del movimento operaio. Un rinnovamento stimolato dalle grandi esperienze rivoluzionarie che si compiono in altre parti del mondo, ma dettato dal carattere che lo scontro sociale assume oggi nell'occidente capitalistico. La sinistra rivoluzionaria occidentale è ancora vittima di una debolezza storica di fronte al capitalismo sviluppato. La sua critica al sistema non ne ha investito la natura ma le insufficienze produttive, le sue piattaforme di lotta solo di rado hanno superato l'orizzonte rivendicativo o quello parlamentare, la sua interna struttura è rimasta centralizzata e gerarchica. Questi caratteri negativi hanno segnato sensibilmente il movimento di classe. Per superarli, non una semplice modifica di linea è necessaria ma una innovazione profonda nell’orizzonte teorico, nel modo di essere e di operare delle organizzazioni che la classe operaia ha finora espresso.
Enrico Berlinguer avrebbe probabilmente preferito evitare dei provvedimenti disciplinari che però il resto del partito gli impose fin dall’uscita del primo numero. Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda saranno radiati con il voto del Comitato centrale del 25-27 novembre 1969. La stessa sorte subiranno gli altri membri della redazione nelle settimane successive. La stessa Rossanda scriveva:
'Radiati' voleva essere meno grave che 'espulsi', come negli altri partiti comunisti, con l’accusa di tradimento o comunque di indegnità morale. Noi eravamo accusati di aver costituito una 'frazione'; in realtà non avevamo costituito nessuna frazione, non eravamo per nulla clandestini né avevamo cercato sotterranei contatti con altri gruppi di compagni; ma avevamo fatto forse di peggio: pubblicavamo dal giugno precedente un mensile di cultura politica che al primo numero aveva venduto oltre cinquantamila copie, era diretto da Lucio Magri e da me (Rossana Rossanda), e firmato da Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S.Karol, Michele Rago e Lucio Colletti.
Ci era stato richiesto di chiuderlo o modificarne la direzione, e avevamo rifiutato.
A quelle del Comitato centrale seguirono la radiazione di Magri e Luciana Castellina, nonché di quelli che avevano diretto e firmato la rivista e dei membri di diverse federazioni che, quando la questione del manifesto era stata discussa, ci avevano appoggiato.
Raramente il Pci si risolveva a espellere, se non chi fosse stato pescato con le mani nella cassa o simili; l'ultima volta per il Comitato Centrale erano stati i deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani, accusati di essere seguaci di Tito, il dirigente jugoslavo scomunicato dal partito comunista dell'Unione Sovietica.
In un partito che si figurava come un esercito in guerra, la discussione era ammessa all'interno di una singola istanza e in presenza di un rappresentante delle istanze superiori, dopo di che si votava a maggioranza e tutto rientrava nell'ordine. Questo sistema, il "centralismo democratico", era un metodo di comando che consentiva alle istanze superiori non solo un controllo ma di capire che cosa avevano nella testa quelle inferiori, stabilendo il limite delle eventuali mediazioni.
La vera discussione, fino ad autentici scontri, avveniva nella direzione, senza che ne uscissero e tanto meno fossero sottoposte al Comitato Centrale e alla base le linee di divisione, che si potevano soltanto intuire dai diversi accenti che i membri della direzione mettevano nei loro discorsi e comportamenti. La virtù più elogiata, di buono o cattivo grado, era la lealtà, forma onorevole di obbedienza. L’uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, questo meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel '68 degli studenti e nel precipitare dell'autunno caldo del '69. Una divergenza era venuta alla luce nel gruppo dirigente con la morte di Togliatti, nell’agosto del 1964. (…) Magri, Natoli, Pintor, Rossanda decisero di sfidare il gruppo dirigente fuori della consueta procedura (…) Non volevamo spaccare il partito, ma cambiarlo.
Pochi giorni prima Pietro Ingrao diceva:
Sento non solo l’errore, ma l’infecondità di una proposta riguardante la vita interna del partito che si presenta così, davvero, come una proposta 'esterna', intellettualistica, e non come iniziativa ed anche lotta politica aspra, ma che si innesti nel vivo dell’esperienza che sta facendo il partito in questo momento, dei problemi e degli spostamenti che sorgono in questa lotta, del processo reale che si compie. Non per caso i compagni del Manifesto, al di là delle parole che ha detto ieri la compagna Rossanda, sono stati trascinati dalla logica stessa della loro visione ad un’azione che ha caratteri frazionistici e, nella pratica, al di là delle loro stesse dichiarazioni, finiscono col proporre al partito un’organizzazione per gruppi. Credo, compagni, che noi dobbiamo dissentire nettamente e profondamente dal frazionismo, non solo per disciplina, non solo per tradizione, non solo per esperienze gravi che sono state fatte da altri partiti, a cominciare dal partito socialista, ma per una ragione di fondo, che riguarda questa fase del movimento operaio internazionale, queste novità in cui siamo impegnati.
Parlo della necessità di rompere l’illusione nefasta che ha tanto pesato nella vita della sinistra operaia occidentale e anche nella vita del nostro paese, di rinnovare 'separandosi', di rinnovare creando sette; illusione profondamente dannosa, che ha ritardato pesantemente il cammino verso l’unità politica di uno schieramento di classe.
Credo che i compagni del Manifesto resteranno al di qua di una risposta giusta agli interrogativi ed ai problemi che stanno dinanzi a noi, quanto più si separeranno e si rinchiuderanno nel gruppo, perché cosi, sempre più, si verrà ad indebolire quel rapporto tra elaborazione, azione e verifica nell’azione, che è per noi marxisti la chiave per costruire una risposta scientifica alle questioni che lo scontro di classe ci pone. Quando noi poniamo in rilievo che il dibattito ci è profondamente necessario sì, ma nelle sedi comuni del partito, non intendiamo gettare un anatema pregiudiziale su un qualsiasi collettivo. Intendiamo affermare l’esigenza che il lavoro, singolo o collettivo, si rifonda e si verifichi subito nella prassi dell’azione del partito, nelle sedi in cui poi il partito nella sua organicità discute, elabora; decide. Anche per questo non condivido la sfiducia che si legge nel Manifesto verso i momenti istituzionali che sono invece, secondo me, la condizione per elaborare e per «durare», e quindi sono una forza e non un impoverimento come sostiene Sartre nel colloquio riportato dal Manifesto.
Qui viene il punto più grave e delicato, sul quale non sono ammissibili transazioni; non è ammissibile l’indifferenza ed anzi l’estraneità rispetto alla conclusione cui giunge la discussione negli organi centrali del partito. Una tale posizione di estraneità e di indifferenza vuoi dire davvero una separazione radicale. Dobbiamo dircelo con chiarezza, compagni. Si può essere convinti che la conclusione a cui giungono gli organi del partito è sbagliata e dirlo; questo può capitare, è capitato a tanti di noi, e noi dobbiamo anche riuscire a trovare metodi migliori per rendere semplice, 'normale', e quindi più feconda questa espressione del dissenso.
Si può pensare che il dibattito è stato condotto male (io non ritengo che questo sia il caso) e criticare e combattere questa condotta. Si può ritenere anche che vi sia stata coercizione, e battersi contro questa coercizione con fermezza e intransigenza, sino all’ultimo. Ma si deve tener conto delle conclusioni a cui giungono gli organi del partito: per una ragione politica. Non è un fatto di disciplina formale, esteriore, che pure conta: è la prova che si vuole trovare la soluzione giusta con gli altri compagni del partito, e non in un astratto partito, ma nel concreto partito, nella vita reale del partito come noi la viviamo. È la convinzione che l’insieme dei compagni, anche di quelli che sono più lontani dalle nostre posizioni, ci è necessario per la risposta giusta, per la lotta nostra. Ci è necessario, se vogliamo portare avanti una posizione che sì è convinzione del singolo, ma che per essere una posizione giusta, per acquistare forza storica, per incidere nella lotta di classe e non restare velleità o puro progetto intellettuale, deve misurarsi in questo travaglio collettivo. In caso contrario, infatti, o esiste ormai la sfiducia radicale di cui parlava Natta e cioè si pensa ad un altro strumento politico (che può essere una decisione molto grave, che non mi auguro), ma allora è giusto dirlo ed e necessario indicare anche quest’altro strumento politico, oppure, se non è questo, è visione illuministica, intellettualistica dello scontro sociale.
Alla domanda "Ingrao disse poi di essersi pentito di avere votato per l'espulsione dal Pci del gruppo del manifesto. Ammise che gli era mancata l'immaginazione e il coraggio per seguirvi?", rispondeva nel 2015 Rossana Rossanda: “Affermò che si trovò solo nelle battaglia e che noi l’avevamo abbandonato. Non andò così”.