Era l’inverno del 2017 e mi trovavo nel Museo egizio di Torino insieme a mia figlia quando rimasi colpito, tra le tante meraviglie che mi circondavano, dal papiro redatto da uno scriba nel 1150 a.C.. Il documento raccontava il primo sciopero della storia, organizzato in Egitto durante il regno di Ramses III dagli abitanti di un villaggio che stavano costruendo i templi di Tebe. Avevo con me solamente un vecchio cellulare, ma non ho potuto astenermi dal fotografarlo, unica immagine rubata in quella visita.
A colpirmi era stato il fatto che oltre tremila anni fa lavoratori sostanzialmente ridotti in schiavitù avevano avuto la forza di opporsi al faraone e ai suoi funzionari per il forte ritardo nell’erogazione della loro paga, peraltro costituita da derrate alimentari e dagli unguenti che servivano a proteggerli dal sole e dal clima desertico. Lo sciopero durò alcuni giorni e terminò solamente alla consegna del pagamento dovuto. La protesta indusse il faraone a creare organi che controllassero il rispetto dei termini di pagamento dei lavoratori.
Ho pensato allo strumento dello sciopero ai giorni nostri, al suo essere stato depotenziato d’efficacia e d’intensità, a come il proliferare di contratti diversi all’interno della stessa azienda e dello stesso settore abbiano diviso i lavoratori, abbiano fatto perdere la coscienza collettiva e quindi la forza di coalizzarsi per vedere i propri diritti rispettati, con la chiusura in un egoismo che non prevede certo la lotta e tantomeno lo sciopero.
Oggi non costruiamo più templi, ci muoviamo su territori globali che ci possono risultare sconosciuti, i faraoni non si sono estinti e gli schiavi nemmeno, ma la bussola del ‘diritto-dovere’ del lavoro deve indicare e perseguire solamente la dignità della persona e, magari nel 5021 avremo recuperato la forza della classe lavoratrice.