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Dopo “La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole”, la pubblicazione di “Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari”, sempre per l’editore Laterza (pp.281, € 18), sembra completare una riflessione proposta nel libro precedente da Vanessa Roghi, storica, autrice di documentari per la Rai, docente presso le Università La Sapienza e Roma Tre.
Cento anni dalla nascita, quaranta dalla morte. In che modo ha lavorato su questo libro dedicato a Gianni Rodari?
Ho iniziato a pensare questo libro quando stavo terminando di scrivere “La lettera sovversiva”, il libro su don Milani, che non a caso si conclude con una frase di Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. Una frase che ritroviamo nella “Grammatica della fantasia”, e che forse descrive meglio di don Milani stesso quale fosse il suo pensiero, vale a dire il possesso delle parole per tutti come strumento di cittadinanza. Da lì ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire questa storia e questo legame, passando da “Lettera a una professoressa”, un punto di osservazione comunque particolare per parlare di scuola, a luoghi più istituzionali (anche se Rodari aveva ben poco di istituzionale), dato che Rodari era anche organico a un partito, il Pci di allora, cercando di capire quanto potesse svilupparsi un ragionamento parallelo su questi temi.
Ho dunque proceduto in modo classico, partendo dagli archivi, perché è stato scritto molto di Rodari scrittore dell’infanzia, mentre in questo caso volevo fare un lavoro più da storica, ricostruendo il percorso dell’intellettuale legato al Pci, per comprendere quale fosse stata la sua storia. Sono così partita dall’Archivio Gramsci, che raccoglie la storia del Pci, alla ricerca di tracce risultate un po’ deludenti, ricavandone non molto a parte la collaborazione per l’Ordine Nuovo di Varese, l’Unità a Milano dal 1947, e una sua autobiografia scritta per il Pci sempre a Milano, questa sì molto interessante, in cui vengono riportati i libri e i militanti di partito che hanno contribuito alla sua formazione. Per il resto, si tratta prevalentemente di passaggi in varie segreterie del Pci, dove gli veniva chiesto di ricoprire diversi ruoli, come quello di direttore de “Il pioniere”; ma non venne mai chiamato a far parte di organismi culturali, neanche quando negli anni ’60 il modello culturale del Pci si apre di più rispetto a prima, e nemmeno negli anni ’70, malgrado iniziative di assoluta rilevanza, come la direzione dal 1968 de “Il giornale dei genitori” dopo la morte di Ada Marchesini Gobetti, che lo fondò nel 1959. Nel corso della ricerca una tra le cose che mi ha più colpita, direi con tenerezza, è stata che Rodari, nel tempo, continuava comunque a partecipare alle riunioni di sezione a Roma.
Lo accennavamo, ma vorrei approfondire questo passaggio: Gianni Rodari era una personalità molto popolare, impegnato politicamente, eppure è stato lasciato al margine dalla cultura militante e dominante di quegli anni, sino alla consueta celebrazione post mortem, seppur “nella gabbia di qualche antologia”. Perché secondo lei?
Per due motivi. Uno riguarda la cultura popolare, il secondo i bambini. Il pregiudizio nei confronti della cultura popolare non è mai morto. Quindi lo scrivere cose molto lette, e per tutti, lo faceva già considerare meno degli altri. Ho consultato anche l’Archivio Einaudi a Torino, scoprendo che Rodari riceveva una percentuale sui libri venduti più bassa tra gli scrittori di scuderia, il 5% rispetto agli altri che prendevano l’8%, mentre Italo Calvino trattava in maniera individuale. Credo che questo dipendesse dal fatto che la letteratura per l’infanzia sia sempre stata considerata letteratura di serie B, come lo stesso Rodari affermava, ed è una cosa piuttosto strana, dato che il bambino e l’adulto sono la stessa persona. Se i bambini leggono Rodari, divenuti adulti continueranno a leggere, dunque la sottovalutazione della cultura cosiddetta popolare e di quella dedicata ai bambini non ha motivo di esistere,
A proposito di editoria, Rodari amava ripetere questa espressione: “Il mio committente è il movimento operaio, più che il mio editore...”. Cosa significava e cosa può significare oggi una frase come questa?
Si tratta di una frase scritta nel 1974, che spiega anche perchè la dedica del libro “Grammatica della fantasia” sia rivolta alla città di Reggio Emilia. La figlia per questo gli diede del vanitoso, dicendogli che un libro si dedica a una fidanzata, non a una città. Ma per lui Reggio Emilia in quel periodo storico rappresenta al meglio il modello di città democratica, condiviso con il movimento operaio in modo collettivo, un rapporto che si sviluppa nell’amministrazione quotidiana in una dimensione comune. Una pratica che Rodari aveva incontrato grazie alla collaborazione con personalità quali Loris Malaguzzi e Bruno Ciari, i grandi riformatori della scuola locale in Emilia Romagna. Quindi nel coinvolgimento del movimento operaio vede la realizzazione di quello che secondo lui dovrebbe essere il governo democratico della città. Per questo è il suo committente, e il suo desiderio di impegnarsi con questo tipo di istituzioni proseguirà continuando a lavorare con loro.
C’è poi una questione di sostanza. Quando Rodari afferma che il suo obiettivo è farsi capire da tutti, c’è qualcosa che da subito lo lega al movimento operaio. La sua semplicità, congiunta alla scelta di farsi capire da tutti deriva dal sentirsi una sorta di intellettuale organico alla classe operaia, una posizione che chiaramente parte da Gramsci e la teoria dell’intellettuale collettivo, oltre che dalla rilettura di Gianni Bosio e del suo “intellettuale rovesciato” degli anni ’70.
Prima “La lettera sovversiva”, che da don Milani arriva a Tullio De Mauro; ora queste “Lezioni di Fantastica” su Gianni Rodari. Quali sono i tratti in comune tra queste personalità? Quale idea di scuola ne emerge?
Prima della scuola direi che li accomuni un’idea di democrazia, una democrazia nella quale tutti abbiano gli stessi strumenti linguistici non per una questione meramente scolastica, ma in quanto essenza della democrazia, per poter partecipare in maniera attiva a ogni forma di condivisione della cosa pubblica. Più di tutto li lega l’idea che le parole debbano essere accessibili per tutti, e questo ha naturalmente una ricaduta sulla scuola, il luogo dove la maggior parte delle persone apprende l’uso del linguaggio, anche se c’è chi lo eredita insieme ai libri e le buone maniere dai propri genitori. Chi non lo eredita a casa lo apprende a scuola, che ha dunque il compito di ridurre la distanza tra gli uni e gli altri, se non eliminarla del tutto. Non a caso Tullio De Mauro citerà il Rodari de “Il libro degli errori” quando ragionerà sulla parola educativa, sull’errore come sintomo e risorsa nell’apprendimento della lingua. Perché anche l’errore, la grammatica degli errori, nel percorso di un bambino può rivelarsi qualcosa di creativo.