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Cercheremo di non partecipare a quella “fiera della retorica” che molti esorcizzano con l’approssimarsi dei venti anni dal G8 di Genova, ricorrenza che vedrà il capoluogo ligure ospitare una serie di incontri dedicati non tanto a quanto accaduto ma a quanto rimasto dopo due decenni, e a cosa sia possibile costruire da domani in poi. Giudicherà il lettore se appartenga o meno alla suddetta fiera il libro dal titolo Rincorrere il vento. Genova 2001 (L’incisiva edizioni, pp. 96, euro 10), romanzo breve di Gianluca Peciola, che non a caso sceglie questo genere di narrazione, come ci spiega:
“Cercavo una distanza emotiva dalla storia per far parlare i fatti, che ho provato a descrivere attraverso frasi essenziali. Quello che volevo raccontare non è il “movimento” così come in questi anni è stato sempre rappresentato, ma come siamo fatti noi dentro, e come ciascuno di noi ha vissuto quei giorni: la paura, le tensioni, le aspettative, le ingenuità. Perché di certo arrivammo impreparati al momento del dunque, sorpresi dall’innalzamento dell’asticella degli obiettivi politici, e dall’ampio consenso costruito in così breve tempo. Poi lo Stato ha risposto da par suo, ha risposto come, guardando la nostra storia, ha sempre fatto in determinate circostanze, trovando in seguito il modo per autoassolversi”.
Gli accadimenti del 19, 20 e 21 luglio del 2001 vengono così alternati alla preparazione di quelle giornate nei mesi precedenti da parte di una giovane generazione, impegnata a Roma nelle realtà studentesche e popolari, in particolare legate alle mobilitazioni per l’occupazione delle case. Le riunioni, le assemblee, i vari incontri in più zone della città, lasciano intendere la crescente partecipazione in vista dell’appuntamento di Genova, che nel marzo dello stesso anno era stato anticipato dalla protesta di oltre trentamila persone in una imponente manifestazione contro le organizzazioni internazionali riunitesi a Napoli, repressa nel sangue fuori e dentro le mura della Caserma Raniero: “La prova generale di quello che accadrà a Genova”, commenta una delle protagoniste del libro, senza bisogno di vestire i panni di una nuova Cassandra.
“Credo in questi anni sia mancato - prosegue Peciola - interrogarsi su cosa sia accaduto veramente a quelle persone, scandagliando l’intima componente emotiva, e non soltanto quella politica. Perché quel movimento, per esempio, era composto anche da giovanissimi, appena maggiorenni, alle loro prime esperienze collettive, ai quali venne recapitato un messaggio devastante, un messaggio di terrore. Eppure, malgrado quella violenta perdita dell’innocenza, non credo tutto sia stato perduto, malgrado subito dopo l’11 settembre abbia ulteriormente contribuito a deviare l’attenzione rispetto a quanto avvenne”.
Non tutto si è perduto perché le tante e diverse anime di Genova, al tempo tra loro coordinate, competitive ma non letali l’una all’altra, come poi è successo, hanno continuato il loro individuale cammino, alcune rinunciando, altre cercando di mantenere la radicalità del proprio progetto politico. Perché se nel frattempo il problema rimane lo stesso, se il capitalismo è divenuto “turbo” o “tecno”, anche la battaglia da sostenere rimane fondamentalmente quella, e si combatte cercando di fare quello che si dice. Senza ulteriori sconti.
Un’ultima annotazione suggerita dalla prefazione firmata da Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, quando scrivono che la verità e la giustizia sulle morti di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi hanno almeno aiutato a far comprendere che gli abusi delle forze dell’ordine e la violenza gratuita di Stato sono un problema vero da affrontare e da risolvere, laddove per Carlo Giuliani anni di “narrazione assassina”, portata avanti dai media dominanti, ha permesso di prolungare una questione non più prorogabile, che i recenti fatti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dimostrano ben lungi dall’essere risolta.
Forse a volte un po’ di retorica, o presunta tale, aiuta a rinfrescare la memoria.