Se provate a chiamare il numero della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma (Gnam), vi risponderà una cortese signora; se le chiederete notizie riguardo la mostra dal titolo Il tempo del Futurismo, la cui inaugurazione dovrebbe essere calendarizzata per il 30 di ottobre, vi risponderà di non saperne ancora nulla, e di riprovare tra un paio di settimane. Situazione a dir poco anomala, che vale la pena approfondire.

Si scopre così che l’organizzazione dell’evento, fortemente voluto dall’ex ministro della Cultura Sangiuliano per i 115 anni dal primo Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, apparso il 20 febbraio 1909 su “Le Figaro”, naviga in bruttissime acque e per altissimo mare a causa di sotterfugi, ripicche e vendette che coinvolgono i membri del comitato scientifico, del ministero, della stessa Gnam, tutti insieme non troppo appassionatamente alle prese con un groviglio molto difficile da dipanare.

Per fare qualche nome bisogna partire dai curatori indicati direttamente dal dicastero, Gabriele Simongini e Alberto Dambruoso, il primo docente all’Accademia di Belle Arti e firma culturale de “Il Tempo”, l’altro storico e critico dell’arte all’Università di Frosinone, che può annoverare nel suo curriculum la curatela del catalogo ragionato di Umberto Boccioni, punta di diamante della pittura futurista. Lo stesso Dambruoso, da qualche settimana, si è però dimesso dall’incarico di vicepresidente della Fondazione Boccioni, in polemica con il presidente della stessa (l’avvocato Giuliano Cardellini), sembrerebbe proprio in virtù di alcune tele da esporre nelle sale della mostra, per le quali non si trovano accordi non soltanto di gusto estetico, ma di carattere economico.

Il comitato scientifico è formato da alcune personalità di sicura competenza in materia, tra cui Massimo Duranti, Maurizio Scudiero, Giancarlo Carpi, che si occupa anche dell’aspetto letterario. Sorprende (ma non troppo) che la massima esperta in materia, Claudia Salaris, sia in forte odore di dimissioni dal suo incarico, mentre tra i componenti del comitato si autocertifica Federico Palmaroli, meglio conosciuto come Osho, matita dalla satira sempre pronta, basta non riguardi l’amata premier e il suo governo: ma che del Futurismo, a lume di naso, non risulta tra i conoscitori più accreditati su piazza. Il curatore Simongini parla di Osho come di “figura utile alla comunicazione dell’evento”. Comunicazione che, evidentemente, tra loro difetta.

Intanto i giorni passano e le voci si rincorrono, tra prestiti privati prima acquisiti poi restituiti, motivo l’annullamento di investimenti inizialmente garantiti dal ministero; opere inserite nel catalogo in costruzione, in seguito escluse per il forte sospetto da parte degli organizzatori riguardo la loro effettiva autenticità; giochi di prestigio e di potere tra galleristi, collezionisti e faccendieri vari, che vorrebbero indirizzare la kermesse da una parte piuttosto che dall’altra in base ai loro interessi. Una confusione che ricorda lontanamente le baruffe delle tipiche serate futuriste, sospese tra pittura e aeropittura, tele e sculture, documenti e testimonianze, suoni e rumori, teatro e teatrini, paroliberismo e silenzi fin troppo eloquenti.

Chi di certo non apre bocca è la direttrice della Galleria ospitante, la signora Renata Cristina Mazzantini, in carica dall’inizio di quest’anno, solitamente presente e disponibile, muta e irreperibile se si prova a ottenere qualche informazione per “Il tempo del Futurismo”. Un tempo ormai quasi scaduto, senza che nessuno riesca a trovare la quadra, oltre che il quadro. E le recenti dimissioni di Genny Sangiuliano, primo responsabile dell’operazione, non stanno di fatto aiutando la disperata ricerca di una dignitosa via d’uscita.

Almeno un punto deve essere chiaro: il Futurismo è una cosa seria, costituendo una realtà tra le più rilevanti e visionarie dell’intero Novecento, non soltanto italiano, come movimenti quali quello dadaista e surrealista dimostrarono, e le turbolenze creative dei nostri anni ’70, prima di esser spazzate via dalla deriva armata, hanno poi confermato.

Conferme rintracciabili anche attraverso personalità insospettabili di qualche connivenza, su tutti Antonio Gramsci, che nel suo famoso “Marinetti rivoluzionario?”, pubblicato su “L’Ordine Nuovo” il 5 gennaio del 1921, così scriveva: “I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi”. Una riflessione più o meno in linea con Piero Gobetti, che da critico teatrale sempre per “L’Ordine Nuovo”, pur definendo Marinetti “un uomo impotente a riflettere”, che “non può vivere che di rumori e trovate insulse”, riconosceva in lui le qualità del mattatore, l’animale da palcoscenico antesignano del “teatro di varietà”.

Chi dunque vuole ricordare e celebrare l’epopea futurista dovrebbe farlo nella maniera dovuta, senza scadere in beghe famigliari che rischiano di apparire figlie di approssimazioni dilettantistiche. Anche perché, dopo la tanto sbandierata esposizione dello scorso anno (sempre alla Gnam) dedicata a Tolkien, “uomo-professore-autore”, se la cosiddetta cultura di destra si gioca male la carta del Futurismo, nel suo già esiguo mazzo resta ben poco da pescare.