I Figli di Estia è la compagnia teatrale dell’Associazione Culturale PrisonArt nata all’interno del Carcere di Bollate (Milano) per desiderio di un gruppo di persone detenute che avevano lavorato con Michelina Capato, scomparsa prematuramente nel 2021. Il 18 ottobre debutteranno in uno spazio libero, il Teatro Sfera di Bussero, sempre nel Milanese, con il nuovo spettacolo E tu che lavoro sei? Attori e tecnici sono tutte persone detenute che collaborano con la scenografa Barbara Bedrina e la regista Lorenza Cervara. 

Angelo Redaelli

Lorenza, questo gruppo di detenuti, orfano dell’esperienza straordinaria vissuta insieme a Michelina Capato, ha fortemente voluto portarla avanti. Il teatro è diventato per loro una ragione di vita, in un senso molto più che metaforico. 

Il lavoro teatrale è un lavoro di relazione e quando ha chiuso la cooperativa Estia si è avvertito un vuoto molto forte da un punto di vista emotivo. Soprattutto perché il teatro unisce, permette a persone molto diverse tra di loro, molte delle quali non parlano neanche l’italiano, di comunicare, perché il lavoro che noi facciamo con queste persone è prevalentemente fisico. La parola arriva certamente, ma sempre dopo il corpo e il gesto, che innescano l’interazione principale. All’interno del gruppo si sono consolidati legami molto forti e dunque abbiamo deciso di raccogliere l’eredità di Michelina, per far sì che queste persone che erano rimaste orfane potessero continuare questo lavoro, che necessariamente aveva bisogno del supporto di persone libere, che godono di tutti i diritti civili e possono, a differenza dei detenuti, ricoprire incarichi formali all’interno di un’associazione culturale.

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Il tema del lavoro assume un ruolo cruciale per chi si trova in carcere. Guardando al passato, può essere ciò che è mancato a una vita difficile. Nel presente è quello che permette di immaginare un futuro alternativo fuori. Come avete costruito il percorso su questo tema? 

Noi siamo partiti da una serie di domande aperte: cos'è il lavoro? Che cos'è il lavoro oggi? Che cos'è il lavoro nella società? E che cos'è il lavoro all'interno del carcere? E soprattutto, come cambia la definizione di se stessi in base al lavoro? Questo è un aspetto dirimente per chi è detenuto. Se alla domanda “che cosa fai” normalmente si risponde operaio, impiegato, muratore, banchiere, chi si trova in carcere diventa il reato che ha commesso. Da questo siamo partiti, per provare a recuperare la ricchezza umana che potrebbe trovarsi dietro a quel reato, a quella persona. Magari in qualche caso si è arrivati a delinquere per via di un percorso complesso, forse proprio perché di lavoro non ce n’era. La maggior parte dei detenuti del gruppo arrivano da condizioni familiari e sociali, da contesti di fragilità. Da questo punto di vista Bollate è un istituto penitenziario all’avanguardia, dove si punta realmente alla rieducazione e al reinserimento, a dare alle persone l’opportunità di diventare altro, attraverso percorsi di studio, di formazione professionale, di educazione.

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Viviamo in un momento storico in cui soprattutto i giovani rifiutano il concetto di lavoro come marchio identitario e rivendicano una dimensione umana che prescinde da esso. “Io non sono più il mio lavoro, perché sono e faccio altro”. In carcere questa trasformazione sociale e culturale arriva?

Sicuramente c’è uno scollamento tra le due realtà, ma paradossalmente è molto più semplice fare delle riflessioni rispetto alla definizione di se stessi quando si è dentro rispetto a quando si è fuori. Il mondo oggi ci chiede di essere sempre iperattivi, iperconnessi e iper-reattivi. Ma qui dentro tutto arriva lontano e ovattato, tutti questi stimoli restano fuori. La risposta a “che lavoro vorresti fare” è prima di tutto “vorrei fare un lavoro”. Il tema principale è l’urgenza, la necessità di una base economica che permetta loro di immaginarsi una vita e una famiglia fuori. Poi, certo, arriva anche un desiderio di bellezza, un’aspirazione al miglioramento. Il più giovane elemento della compagnia ha 24 anni, il più adulto ne ha 71. Molti di loro possono ancora pensare a una vita dopo il carcere.

Le attività che svolgete con la compagnia teatrale sono anche professionalizzanti, soprattutto sul piano delle competenze tecniche acquisite. Possono rappresentare per il dopo un reale sbocco lavorativo?

Molti componenti della compagnia si cimentano sia nei ruoli attoriali che in quelli tecnici. Sicuramente la formazione tecnica è quella che permette di pensare con più facilità a un futuro lavorativo, ma ci sono anche ragazzi che mi hanno confessato che desidererebbero continuare a recitare una volta usciti. A prescindere da questo, però, il teatro ti permette di assumere un punto di vista alternativo e nuovo sulle cose, di avere uno sguardo. E questo fa tantissimo. Alcuni ragazzi, per esempio, stanno studiando, vogliono laurearsi, si stanno costruendo un futuro diverso. O quanto meno, ci provano.

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