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Il suo ultimo libro è Romanzo senza umani, uscito nel 2023 per Feltrinelli. Con Paolo di Paolo abbiamo fatto il punto sulla fotografia di un Paese in cui si legge, si scrive, si va a teatro e al cinema sempre meno. Un viaggio virtuale nelle periferie, geografiche e simboliche, che la produzione culturale non riesce a raggiungere. O non è interessata a farlo.
Qual è il dato più interessante dell’indagine condotta dall’Osservatorio Futura?
Credo che sia la relazione tra la richiesta di cultura e un’oggettiva difficoltà economica, che più della metà degli intervistati sembra manifestare. Ciò che noi non teniamo sufficientemente in considerazione è che i consumi culturali sono legati alla situazione economica delle famiglie e, di conseguenza, la partecipazione alla vita culturale della propria città è direttamente proporzionale alla sensazione di benessere economico. Le persone vanno al cinema, a teatro, partecipano ai festival se la loro condizione economica, non necessariamente reale, anche solo per come viene percepita, è una condizione di benessere. Questo perché, per una distorsione anche comunicativa, la cultura vine ancora considerata un bene di lusso. Qualcosa che ci si può permettere come un “in più”. La maggior parte delle persone percepisce la cultura come qualcosa di distaccato dal resto della vita. Moltissimi escono da scuola e non hanno più alcun rapporto con le materie che hanno studiato, cancellano tutto. E poi c’è la geografia, che determina le difficoltà vissute da chi abita in un piccolo centro, o nelle periferie di una grande città, dove l'effettiva possibilità di relazione con la proposta culturale è minima, anche per una questione logistica. Raggiungere il teatro stabile nel centro di una grande città come Roma non è semplice, la distanza fisica lo rende inavvicinabile anche in senso metaforico. Manca il senso dell’abitudine.
Da un lato c’è la questione della disponibilità economica delle famiglie e dei singoli. Dall’altro ci sono i costi spesso proibitivi dell’offerta culturale. In mezzo, le grandi imprese produttive che “impongono” i prezzi dei biglietti, cui però non corrispondono cachet altrettanto alti per gli artisti e i tecnici, a meno che non stiamo parlando dei vip. Il sistema è sbilanciato, si crea un circolo vizioso.
Questo avviene soprattutto nel mondo delle grosse produzioni teatrali. Se andare al cinema o comprare un libro è ancora tutto sommato fattibile, in un grande teatro i biglietti possono arrivare a costare trenta euro e più, soprattutto se si tratta del musical, o del comico del momento. L’impressione è che, se devono rinunciare a qualcosa, le persone rinunciano ad andare al cinema, a teatro, a un concerto, a comprare dei libri. E perché? Perché la cultura è considerata un orpello. Quindi, se è vero che esiste una difficoltà economica oggettiva, è anche vero che si è più pronti a rinunciare a questo “alimento dello spirito”. Ma queste sono le conseguenze di decenni in cui abbiamo contrabbandato l’idea che tanto leggere o andare al cinema, non è che poi facessero la differenza nella vita delle persone. E invece la fanno, e la fanno parecchio. E poi c'è il circolo vizioso di cui si parlava, per cui un certo tipo di produzione culturale riesce a sostenersi in virtù proprio dei suoi grandi numeri, mentre i gestori delle cosiddette sale off stanno sempre in affanno.
Manca una seria politica culturale che serva anche a mettere ordine...
Esattamente. Il grande musical col personaggio televisivo o la mega produzione internazionale ce la fanno, ma qualunque altra alternativa viene schiacciata, mentre sarebbe importantissima per raggiungere anche pezzetti di pubblico diverso. Questo naturalmente appiattisce la proposta culturale a favore dei più grandi. In passato mi sono occupato per Repubblica di raccontare il malessere complessivo di attori e drammaturghi senza alcune tutele. Anche gli spazi chiudono, stanno in affanno, perché raggiungere il pubblico è difficile. Diventa una questione di sopravvivenza, ma non in senso astratto, in senso proprio materiale. Anni fa ho fatto parte di un gruppo di scrittori e scrittrici, tra cui il compianto Alessandro Leogrande, che si erano posti il tema delle tutele sindacali nell'ambito della scrittura creativa. Gli scrittori vivono di diritto d'autore puro, ma non è facile riuscirci, quindi devi fare comunque altre cose, scrivere per il teatro, insegnare. I guadagni provenienti dalle pubblicazioni dei libri sono davvero contenuti. La questione è quanto riesca davvero a sostenersi chi vive della propria arte. Ci sono paesi in cui esiste una rete di protezione, che si tesse con incentivi, borse di scrittura, altre forme di supporto che in Italia sono inesistenti.
Si pensi alla nuova indennità di discontinuità, pensata come strumento emergenziale, piuttosto che sistemico. Un altro dato molto significativo è che solo il 17% degli intervistati considera i salari di chi lavora nella cultura inadeguati. Questo vuol dire che c’è una scarsissima conoscenza delle condizioni del settore. Allora è vero che si spende poco in cultura. Ma è anche vero che la disponibilità a pagare per vedere, è direttamente proporzionale alla notorietà di chi sta sulla scena. La cultura mainstream in ogni caso, vince...
Sì, è proprio questo il punto. Per esempio, trovo che nella letteratura avremmo dovuto difendere, nel tempo, un principio di biblio-diversità e, in generale, di alternativa culturale all’offerta mainstream. Quando lo spazio è piccolo di per sé e viene occupato in modo feroce e imponente dalle grandi produzioni e dai grandi nomi, a tutti gli altri non restano che le briciole. Il motivo per cui le persone sono disponibili a spendere 55 euro per un comico famoso e non ne pagano 10 per uno spettacolo in periferia – e lo stesso dicasi per i libri che si leggono- è che molto spesso quel tipo di proposta neanche arriva fino a loro. Non li raggiunge. E quindi, tornando alla politica culturale, se sei il direttore di un teatro, su cosa investi? Su cosa scommetti? Pensiamo alla recente vicenda delle nomine al Teatro di Roma e a quello che hanno scatenato. Non è solo una questione personale. Dietro c’è qualcosa di molto più profondo: quale idea di paesaggio culturale vuoi realizzare.
Il pubblico va educato. È un’espressione forse forte, ma valida.
Il pubblico va cercato, va allenato, attraverso una strategia culturale elaborata. Per esempio, è decisivo il lavoro che fanno moltissime reti teatrali nelle scuole. Se tu ci arrivi a un certo tipo di produzione è perché qualcuno è venuto a raccontartela, fin quasi sotto casa, come ai tempi del Teatro di Centocelle della Maraini, che andavano a suonare al citofono per chiamare le persone. E questo è anche lo spazio che si conquistano le piccole realtà, altrimenti schiacciate dall'impossibilità di agire su certi spazi e di sostenersi economicamente.
Tornando ai risultati dell’indagine, alla domanda su quali siano le prime cose che vengono in mente associate al concetto di cultura, le risposte vertono principalmente su: libri, tv e Internet. Colpisce il fatto che siano tre prodotti il cui presupposto è una fruizione prevalentemente casalinga e solitaria. Manca l’elemento cardine che rende la cultura fonte di inclusione democratica: la partecipazione.
Si tratta di una questione che personalmente mi ossessiona e che trovo troppo poco esplorata, ovvero quella della povertà educativa. I dati sono sconcertanti. Abbiamo una popolazione adulta che fatica a leggere testi di media complessità, che ha rapporti molto blandi con le conoscenze acquisite a scuola. La politica ha ormai da decenni abbandonato quella che De Mauro chiamava “l’istruzione permanente degli adulti”. Colpisce anche che le risposte degli intervistati citino letteratura, storia e arte, ma nessuno contempli la conoscenza scientifica. Siamo ancora sotto questa specie di ipoteca crociana, che riconosce dignità culturale solo alle materie umanistiche. Chi oggi esce dalla scuola superiore, nel giro di pochi anni dimentica tutto, persino di avere dei bisogni culturali. Smette di percepirli nella sua vita quotidiana. La cultura diventa qualcosa che sta a latere, fuori. Un accessorio.
Una “roba barbosa”…
E invece una popolazione adulta che ha un contatto col paesaggio culturale complessivo è una popolazione più avvertita da un punto di vista politico, di coscienza individuale. Non è che leggere renda una persona migliore, non è vero. Ma leggere qualche libro in più ti consente, per esempio, di gestire meglio la lingua scritta e parlata, e quindi in qualche modo di difenderti come cittadino, di difenderti dalle parole che ingannano, dalla comunicazione ambigua, dal linguaggio tossico dei social, per esempio. Invece la sensazione che restituisce la politica negli ultimi decenni è di non essere minimamente preoccupata di una fascia enorme della popolazione che esce dalla scuola e chiude letteralmente tutte le porte alla proposta culturale. Non leggono libri, non vanno a teatro, non vanno al cinema, non vanno a vedere una mostra. Se noi interrogassimo oggi l'intera classe politica, tutto l’arco costituzionale da destra a sinistra, sui suoi consumi culturali, temo che avremmo un risultato annichilente. L'unica mostra di cui si è parlato in Italia negli ultimi 40 anni è probabilmente quella su Tolkien, perché era diventata una questione politica.
Politica che, invece, forse dovrebbe inventarsi i lea (livelli essenziali di assistenza) culturali, come quelli della salute?
I dati ci dicono che la povertà educativa riguarda una grossa fetta della popolazione italiana, che può rientrare nella definizione di analfabeta funzionale. Una maggioranza dei cittadini che sta completamente da un’altra parte, per quanto riguarda la dimensione economica, sociale, politica, culturale.
Chiudiamo su un ultimo argomento affrontato dall’indagine. Il ruolo dei privati nella promozione dei beni culturali. Su questo in Italia siamo sempre stati un po’ freddi. Resta tutt’ora un tabù?
Ricordo che una volta Baricco osò affrontare questo tema rispetto ai teatri e venne aggredito. Io credo invece che, molto laicamente, dovremmo porci la questione di un sostegno meditato e lucido, da parte delle imprese, alla proposta culturale pubblica. Un intervento virtuoso, che non faccia diventare i privati dei mecenati ambigui, ma che assuma una forma concreta, a me sembra inevitabile e anzi da un certo punto di vista necessario. È chiaro, va definito un perimetro, che contenga le forme di una relazione virtuosa. Ma affidarsi soltanto al pubblico nel campo della cultura non è possibile.