David Lynch non ha mai trattato i temi sociali, economici, politici: era contrario al film “col messaggio”, tenacemente convinto che il cinema sia sempre l’arte dell’immagine. Sono pieni di gente che lavora, i suoi film, ma non c’è mai un motivo lavoristico e volercelo trovare sarebbe fare un torto, realizzare una forzatura. Il momento dell’occupazione viene inteso solo come sfondo estetico per sviluppare il linguaggio dell’inconscio: si pensi solo al magnifico diner di Twin Peaks, il posto di lavoro americano per antonomasia, in cui si serve un’ottima torta di ciliegie e un caffè nero come una notte senza luna.

L’arte di Lynch è stata radicalmente anti-didattica e capace, come un pungolo, di toccare le zone della mente di noi tutti, i nervi dell’inconscio scoperti in ognuno di noi. Forse anche per questo ha avuto una diffusione popolare così vasta, tutti conoscono Lynch, lo amano o respingono, ma hanno visto almeno un suo film. Non può essere un caso. C’è chi sostiene perfino che David Lynch fosse un sensitivo, un essere capace di toccare un’altra dimensione dell’esistenza e riversarla nella nostra, e che dal 16 gennaio 2025 sia solo migrato su un piano diverso. Ma qui siamo nell’esoterico, giustamente, perché Lynch è stato un regista esoterico.

Tra le tante cose che ci ha lasciato, anche se non sarebbe d’accordo, ce n’è una che ricopre un valore quasi sociale: la centralità narrativa dei mostri, gli strani, i deformi. Non c’è messaggio, ovvio, e non c’è alcuna politica intesa in senso stretto, ma soltanto una politica del linguaggio. Alla sorgente della sua carriera, nel 1980 Lynch gira The Elephant Man: il suo film più “normale”, insieme a Una storia vera del 1999, dopo quel debutto onirico e sperimentale che fu Eraserhead.

Come molti sanno, qui si racconta la storia vera di John Merrick, ossia l’uomo elefante: gravemente deforme a causa della sindrome di Proteo, nella Londra di fine Ottocento viene esposto come fenomeno da baraccone fino all’intervento del dottor Frederick Treves, che decide di aiutarlo a spaccare la sua condizione. Il freak show non era una novità ma un’infame realtà: preconizzato dal circo mostruoso di Tod Browning, poi rimesso in scena dalla Venere Nera di Kechiche (una donna affetta da steatopigia) che veniva umiliata negli stessi spettacoli di Merrick.

La parabola dell’uomo elefante, interpretato da John Hurt, esplode sullo schermo nel suo dramma profondo e abissale: il confronto col medico di un quarantenne Anthony Hopkins fa risaltare ancor di più l’orribile deformità. E qui si innesta la magia del giovane Lynch: prima applica una protesi vasta ed evidente a Merrick, lo sfigura e rende inguardabile, e poi ce lo fa vedere. Nel corso del racconto, in modo graduale e auto-evidente, ci abituiamo alla sua presenza, all’aspetto fisico del “mostro” e soprattutto realizziamo che l’apparenza non coincide con l’essenza.

Nel tragico avvitamento finale l’uomo elefante urla: “Sono un essere umano!”. In questo titolo fondamentale per il cinema della diversità, allora, Lynch lancia e lascia un’altra suggestione della sua arte immensa e inestimabile, ripercorribile all’infinito e che verrà ripercorsa continuando a vedere i suoi film: è la dignità dei mostri. Non viene mai detto, mai enunciato, mai specificato perché non serve: la dignità dell’uomo elefante è tutta dentro l’immagine.