“Non è sorprendente che il passaggio dal mondo unipolare a guida statunitense, ad uno multipolare, multicentrico e multiculturale, sia accompagnato da crisi politiche e conflitti armati. Sullo sfondo di queste tensioni c’è la competizione da parte delle grandi potenze per porsi in una situazione di indipendenza economica, energetica e politica dalle altre. Questo significa prima ancora che confronto militare, competizione per il controllo delle materie prime e delle tecnologie essenziali allo sviluppo economico, e, in modo particolare, delle monete che vengono usate per gli scambi internazionali.

Tuttavia, se questa transizione è lungi dall’essere completa ed un nuovo ordine mondiale lontano dall’essere stabilito, le profonde incertezze associate alla trasformazione dell’assetto politico ed economico internazionale si esaltano ulteriormente a causa di due emergenze globali: la crisi climatica e le enormi concentrazioni di capitale con le associate disuguaglianze. In questi tempi burrascosi è perciò sempre attuale la famosa massima di Antonio Gramsci: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri».

Il cambiamento climatico è inequivocabilmente attribuibile alle attività umane e alla struttura economica dei paesi industrializzati e al consumismo sfrenato dei Paesi del Nord del mondo. Il contributo storico alle emissioni di gas serra dei Paesi Occidentali supera di gran lunga quello degli altri Paesi sia in termini assoluti che pro-capite.

Questa situazione pone l’Occidente in una condizione di debitore netto rispetto ai Paesi che si stanno affacciando ora nella crescita economica e nello sviluppo industriale. In aggiunta, una manciata di super-ricchi, prevalentemente appartenenti ai Paesi Occidentali, contribuisce in maniera spropositata all’emissione di gas serra. L’1% dei super-ricchi della popolazione mondiale detiene il 40% di tutta la ricchezza e il 20% di tutto il reddito ed è responsabile di quasi il 20% di tutte le emissioni di anidride carbonica.

La narrazione dei media mainstream (MMS) non corrisponde alla profondità delle crisi in atto e all’urgenza di affrontarle e l’opinione pubblica sembra anestetizzata. In Italia, come in tanti altri paesi, la grandissima parte dei MMS è controllata da pochi gruppi editoriali a loro volta nelle mani degli “ultraricchi”. Il risultato di questa sovrapposizione di potere mediatico ed economico è il condizionamento dell’informazione che comporta una perdita di credibilità dei principali quotidiani con conseguente perdita di lettori. La narrazione dominante nei MMS, almeno nel Nord Globale, è prodotta da tre grandi agenzie di stampa che influenzano il dibattito pubblico in tutti i Paesi occidentali.

In Italia un piccolo gruppo di giornalisti la sostiene e la ridefinisce nei principali talk show televisivi creando un’egemonia culturale tra carta stampata, televisione, interessi privati, economici e politici. Questi talk show sono però vieppiù seguiti solo da ultracinquantenni mentre i più giovani si informano sui social media che, in maniera disordinata e disorganica, rappresentano al momento una risorsa alternativa e potenzialmente valida di informazione. Tuttavia, senza un’adeguata selezione delle fonti e capacità di orientamento nei social media si diventa facilmente vittime dell’algoritmo che domina incontrastato sulla selezione di notizie che compare nella “timeline” di ciascun utente. La proposta di legge che potrebbe portare al blocco sul territorio degli Stati Uniti di TikTok, social media non americano ampiamente diffuso soprattutto tra le giovani generazioni, è un altro segnale di volontà di controllo dell’informazione.

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Il controllo dei MMS è solo un aspetto delle enormi concentrazioni di ricchezza che caratterizzano il capitalismo contemporaneo e che lo rendono sostanzialmente diverso da quello idealizzato dai modelli teorici degli economisti, secondo cui l’informazione perfetta, la concorrenza ed il libero mercato avrebbero prodotto la migliore distribuzione delle risorse possibile per tutti. Il turbocapitalismo finanziario odierno dominato da colossali oligopoli o, in alcuni casi, monopoli, celati dietro il paravento del “libero mercato” e della sua efficienza, è un sistema economico e sociale completamente diverso dal capitalismo di mezzo secolo fa. Le sei principali multinazionali - Apple, Microsoft, Alphabet, Nvidia, Amazon e Tesla - hanno complessivamente accumulato un capitale del valore superiore a 14 trilioni di dollari, un valore equivalente a tutto il PIL europeo.

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Neoliberismo, globalizzazione e finanziarizzazione hanno cambiato radicalmente le società occidentali. […] Il progetto politico neoliberale è un “progetto di classe” sostenuto da un potere politico subordinato ai grandi oligopoli: basti pensare […] alle multinazionali che operano addirittura come monopoli (come nel caso del cibo), esercitando un notevole controllo sul mercato e stabilendo le regole grazie al loro enorme potere economico. A titolo di esempio, si consideri che il valore di mercato di Apple ammonta a 3.000 miliardi di dollari, superiore all’intero PIL della Francia, che rappresenta la settima economia più grande al mondo.

Inoltre, i cinque maggiori colossi globali per capitalizzazione possiedono un valore di mercato complessivo superiore al PIL di tutte le economie dell’Africa, dell’America Latina e dei Caraibi messe insieme, mettendo in luce l’enorme dimensione e influenza di tali aziende nella scena economica mondiale. Le imprese hanno ottenuto enormi benefici dalle strategie di contenimento dei costi del lavoro, come il ricorso a forme di lavoro non standard (come il lavoro temporaneo o a tempo parziale), l’esternalizzazione di parti del ciclo produttivo. Questo approccio ha spesso creato una situazione di precarietà e informalità per i lavoratori con contratti atipici, caratterizzata da minor potere contrattuale, basse retribuzioni, limitato accesso alla protezione sociale, scarsa sicurezza e violazione dei diritti fondamentali.

Il potere economico delle grandi multinazionali si traduce spesso in un condizionamento utilizzato per influenzare a proprio vantaggio le normative sul lavoro. Esistono evidenze di attività di lobby da parte delle imprese volte a imporre restrizioni alle attività sindacali, a contrastare le restrizioni sul lavoro forzato, ad opporsi ad aumenti del salario minimo legale, ad ammorbidire la normativa sul lavoro minorile e a ottenere riforme che indeboliscono i diritti dei lavoratori e le norme sulla salute e sicurezza sul lavoro”.