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Neanche oggi si potrebbe scrivere «la donna nasce libera ecc.» dando per ovvio che, come l’uomo, la donna rappresenta la specie umana nella sua totalità. È vero che nella dichiarazione di diritti come nelle costituzioni non si dice mai «il maschio» e «la femmina» mettendo sotto tono la funzione sessuale; ma neanche al livello di «persona o soggetto», in principio assoluto, dicendo «donna», si intendono ambedue i sessi.
La «classe» è invece giovane, si costituisce assieme al modo capitalistico di produzione, o ne è costituita come merce da affittare e gettare, ne prende coscienza collettivamente e lotta collettivamente contro questa sua condizione. I suoi diritti non sono affatto uguali a quelli del proprietario della fabbrica, e neppure appaiono nelle carte dei diritti fondamentali, perché sono il prodotto di una forma transeunte di contratto di lavoro, inuguale ma liberamente assunto. L’operaio non è obbligato in via di legge ad accettare quel lavoro né quelle condizioni di lavoro, almeno fino a ora. Le parti sociali hanno una forza inuguale, e soltanto il socialismo e poi comunismo hanno messo in causa questa ineguaglianza attraverso una lotta che è durata meno di un secolo, e oggi sembra avere smarrita la sua simbologia politica, restando appena visibile a livello sindacale.
Ancora, gran parte del conflitto fra donna e uomo sembra potersi risolvere nel quadro della democrazia rappresentativa – che «lei» abbia diritto di voto appare un’ovvietà che non si capisce bene che cosa abbia impedito di riconoscere prima del Novecento, se non come una contraddizione della democrazia – mentre il conflitto capitale/lavoro non si risolve in essa, anzi, neppure è evidente in un sistema che ha nella proprietà privata dei mezzi di produzione uno dei suoi cardini. Il diritto letteralmente «non vede» la perdita di sé dell’operaio quando diviene merce. E neppur vede le donne come cittadine dimezzate, ma come mogli, madri o figlie nel diritto di famiglia, dotandole di minore responsabilità e capacità, o come delinquenti nel codice penale quando la loro trasgressione è tale da non poter essere consegnata al castigo del patriarca. Benché la sessualità abbia ordinato il mondo vivente, il diritto lo depura da essa – il cittadino che lentamente prende possesso della res publica è neutro. È come se donne e operai non potessero essere visti senza turbamento nella loro «imperfezione» sessuale o proprietaria.
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Le donne sono uno dei due sessi della specie umana; gli operai sono il prodotto d’una formazione storica transitoria. Il femminismo non mira a far scomparire le donne e neppure l’altro sesso, mentre il comunismo mira a fare sparire la classe abbattendo la proprietà che la determina. Femminismo e comunismo sperimentano ugualmente la tendenza a essere messi a tacere, ma questo accade a tutte le esclusioni. L’intolleranza, la xenofobia, il razzismo, la paura del diverso si ripetono nel tempo mutando forme e oggetto. Anche le soggettività degli esclusi sono diverse: c’è chi vuole la distruzione dell’oppressore e della sua cultura, chi vuole assumerne i diritti e la cultura, chi vuole il diritto alla propria differenza – l’antica tensione fra l’universalmente umano e la particolarità dell’individuo o del gruppo va tenuta aperta. E un sesso è qualcosa di più di un gruppo.
Infine, sia il comunismo sia il femminismo si costituiscono assumendo la loro «diversità» rispetto alla dichiarata neutralità sociale o sessuale. Essi si formano secondo il gramsciano «principio di scissione», necessario per assumere coscienza di sé, separata e rivelatrice di un conflitto prima nascosto. Tutte e due denunciano una sopraffazione; materiale o simbolica, nella quale gioca un ruolo ambiguo la proprietà: al momento di discutere di chi abbia diritto al voto, dalla rivoluzione francese alla lunga strada per arrivare, in Occidente, al suffragio universale, questo diritto è negato a chi non possiede propri mezzi di sussistenza perché non sarebbe realmente libero di scegliere – cioè agli operai, ai servi e alle donne. L’argomento tornerà in Italia nel 1945, e non solo da destra, ma nel Partito socialista preoccupato della soggezione femminile al marito e al prete. Non che le donne siano inferiori agli uomini – la dichiarazione del 1789 non viene mai smentita – ma «occorrono le condizioni» per cui anch’esse siano libere di scegliere.
E chi le determina? Chi possiede, materialmente e simbolicamente, la loro condizione. Non è un’ulteriore analogia con la «classe»? Eppure no, l’operaio è ridotto, da soggetto, a merce, «accessorio vivente alla macchina», può essere acquistato e dismesso, la donna resta specie umana ma «imperfetta», viene ceduta dal padre maschio a uno sposo maschio, cui è trasmesso il potere su di lei, ma solo nello schiavismo è propriamente merce.