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La Cgil e il Partito comunista, dalla metà degli anni Settanta del Novecento, si trovano a confrontarsi con quella diversa sensibilità politica ed “esistenziale” della classe operaia, con quel diverso paradigma che Edward Thompson ha riassunto nella categoria interpretativa della “opacità”.
Resistenza tenace alla pressione esterna e interna ai luoghi di lavoro; progressivo restringimento del peso politico, rivendicativo e conflittuale nelle relazioni con il sistema gerarchico di potere prevalente nelle fabbriche e, più in generale nel Paese; rabbia e delusione mista a ribellione e sorda acquiescenza per la percezione di non riuscire a espandere e stabilizzare le conquiste del ciclo contrattuale del 1969-72; disincanto verso la saggezza e la conduzione strategica dei gruppi dirigenti centrali e periferici del sindacato e del partito: tutto ciò concorre a sedimentare il sostrato che si consoliderà nella zona grigia, nella “opacità” di cui scrive Thompson.
Questo processo, peraltro, non è estraneo ai grandi movimenti di massa e al carattere ambivalente che assume la mobilitazione di classe nei lunghi decenni tra la fine del diciannovesimo secolo e l’epilogo del ventesimo.
La forzatura favorevole degli equilibri di potere nella società, nella politica e soprattutto nell’economia, dà luogo a durissimi contraccolpi, a prolungati cicli di reazione classista, anche al di fuori dei canoni prevedibili, da parte dell’insieme dei ceti e delle istituzioni dominanti.
All’assestamento neoconservatore e alla strategia volta al ripristino dei vecchi equilibri e delle gerarchie preesistenti si contrappongono tre tipologie di risposta: l’adeguamento e l’accettazione del ritorno, più o meno condiviso, all’ordine tradizionale in cambio di qualche concessione; il tentativo di proseguire la “forzatura” al di fuori di ogni congruente valutazione, passando dalla radicalizzazione del conflitto al terrorismo e all’eversione militare; l’emergere e il diffondersi di vaste aree di indifferenza e di passività della massa dei lavoratori che rompono la coesione tendenzialmente uniforme che presiede ai movimenti collettivi. Ed è proprio in questo scenario inedito e contraddittorio che la Cgil e il Pci faticano a comprendere la matrice politica che presiede e alimenta la lotta armata.
Affiora una sostanziale impreparazione analitica e culturale, forse un superficiale rifiuto ad accettare che, nello scenario che si andava imponendo, la crescita dell’attenzione della massa dei lavoratori verso la militarizzazione e l’uso del terrorismo si intrecciava con l’insieme di quelle trasformazioni dell’autopercezione che la classe operaia stava sperimentando. Questo richiedeva una più matura capacità di muoversi dentro il mondo del lavoro, di orientarlo, di offrire diversi e credibili obiettivi politici e rivendicativi atti ad arginare la riscossa padronale in fabbrica e la delegittimazione politico-parlamentare, a divenire forza di governo in nome dei valori e degli interessi delle classi lavoratrici.
Quando la lotta armata apparirà nella sua interezza eversiva e nelle sue ramificazioni, i dirigenti e soprattutto i militanti comunisti compiranno una scelta moralmente ineccepibile, coraggiosa e degna della tradizione resistenziale democratica e costituzionale del partito: la lotta frontale fino in fondo per sconfiggere ed estirpare il terrorismo e la violenza politica all’interno del mondo del lavoro e in tutti i settori della società e delle istituzioni deviate, anche ricorrendo all’integrazione e alla sostituzione spesso delle immature istituzioni di tutela dell’ordine democratico da parte dello Stato.
Questo sforzo enorme, di massa, unico e straordinario in tutto l’Occidente, nel contrasto al terrorismo, salverà lo Stato democratico ma verrà coniugato e “speso” unilateralmente, e cioè senza soluzioni alternative, su quel progetto politico di legittimazione che, per paradosso, proprio il contrasto vittorioso al terrorismo stava minando e vanificando agli occhi delle ciniche classi dirigenti economiche e soprattutto politiche e culturali, man mano che la partita della lotta armata e dell’eversione rossa si esauriva.
In questo contesto la Cgil torna a sperimentare i tratti di originalità che contraddistinguono il movimento sindacale italiano e ne fanno un unicum nel panorama europeo. Una Repubblica che nasce sul compromesso costituzionale con le forze del lavoro e che negli anni Settanta arriva a reggersi sulla centralità sindacale fa sì che in quel tornante decisivo, come negli altri della storia del Paese, sia il sindacato a farsi carico della tenuta delle istituzioni anche e fondamentalmente al di là del funzionamento classico di una democrazia liberale.
Di fronte all’irrompere del fenomeno terroristico l’autonomia, alla prova della violenza militarizzata e del terrorismo, diviene un terreno concreto e impervio sul quale e dal quale nascerà un rafforzamento per la Cgil, e per il movimento sindacale nel suo insieme, delle ragioni stesse della propria cultura centrata storicamente sul rifiuto dell’eversione e sull’affermazione dell’alterità fra le forme dell’organizzazione, della lotta sindacale e le forme dell’azione eversiva e violenta. E ciò anche attraverso una ridefinizione dei ruoli con la rappresentanza partitica.
In questo senso la vicenda del terrorismo avrà per la Cgil una straordinaria importanza come occasione per riacquisire e riaffermare con forza, coerenza e lucidità strategica questo carattere storico ineliminabile dell’identità del sindacalismo italiano rispetto alle altre forme di azione e di rappresentanza del mondo del lavoro. Ed è per questo che l’importante funzione di stimolo che il gruppo dirigente del Pci manifesterà nell’individuare nel terrorismo un nemico della classe operaia, oltre che della democrazia repubblicana, troverà nel corpo ampio dell’organizzazione confederale, dai vertici ai delegati delle fabbriche, una risposta non solo politica ma una rivendicazione di identità valoriale che finirà con il condizionare anche le scelte e i comportamenti dei militanti comunisti.