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Enrico Berlinguer nasce a Sassari il 25 maggio del 1922. Nell’ottobre del 1943, appena maggiorenne, si iscrive al Partito comunista italiano, diventando segretario della sezione giovanile di Sassari. Nel 1945, dopo la Liberazione, è a Milano come responsabile della Commissione giovanile centrale del Pci.Tre anni più tardi, al VI congresso del Partito, viene eletto membro effettivo del Comitato centrale e membro candidato della Direzione (con il IX congresso, svoltosi a Roma tra il 30 gennaio e il 4 febbraio 1960, fa il suo ingresso a pieno titolo in Direzione assumendo l’incarico dell’organizzazione).
Segretario regionale del Pci del Lazio dal 1966 al 1969, entra in Parlamento per la prima volta nel 1968 e al XIII Congresso nazionale del Pci, che si tiene a Milano nel marzo del 1972, ne viene eletto segretario nazionale. Sarà il segretario più amato del partito, quello che porterà il Pci al massimo consenso storico. Il 7 giugno 1984, dopo un comizio elettorale a Padova, viene colto da un malore. Morirà l’11 giugno, dopo quattro giorni di coma, a 62 anni.
"Berlinguer era un uomo che sosteneva con forza l’idea dell’etica nella politica - ricordava pochi giorni dopo Luciano Lama - Ci credeva davvero. Ci sono quelli che non vogliono proprio sentire parlare di etica, anzi stabiliscono due categorie diverse: uno è il campo della morale, l’altro il campo della politica. Quindi politica come carriera, come successo, come potere, forse anche come corruzione. Poi la morale. Bene: questa scissione lui proprio non l’accettava, era il rovescio esatto della concezione che aveva dell’integrità. Certo, capita spesso che chi ha questa concezione della vita politica viene definito integralista, moralista. Lo è veramente se pretende di fare agli altri la lezione che magari non applica alla propria persona. Del resto il rispetto è sincero anche da parte dei ladri. Non è vero che i ladri disprezzano gli onesti, non è vero che i corrotti disprezzano gli integerrimi. Alla base di questo sentimento di solidarietà, di dolore sincero, c’è un sentimento profondo che riguarda un uomo che aveva una diversità: quella di essere pulito, quella di mettere gli interessi personali al di sotto di quello che lui considerava il bene del Paese”. Un Paese che il giorno dei funerali scende in piazza compatto e commosso.
Scriveva Lietta Tornabuoni: “La gente lo chiama, lo applaude per tanto tempo, e l’onda del battimani è più forte delle note solenni della musica d’addio. Un milione e mezzo di persone, magari di più, impossibile contarle. Il segretario comunista ha avuto dopo la morte il suo comizio più grande, l’emozione più profonda e il consenso più vasto di tutta la vita. Una folla sterminata, addensata nella piazza ma unita anche nei cortei e altrove per l’intera città, venuta da tutta Italia: bandiere rosse, pugni chiusi levati, fiori rossi, striscioni, canti alti o sommessi. Grida: “Enrico, Enrico”. Fazzoletti rossi. Cartelli. Uno dice: “La grande forza dell’uomo è il pensiero. Tu hai saputo pensare. Grazie, Enrico”; altri ripetono con affettuosità familiare “Ciao, Enrico”; “Addio” è l’unica grande parola stampata in rosso su quella prima pagina dell’Unità che molti portano spiegata in mano o sul petto, come un emblema di lutto o un modo di espressione. Una immensa manifestazione di forza, disciplina e serietà: ma anche di una malinconia triste, solitaria e finale”.
Dal palco parlano, tra gli altri, Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti. A rendere omaggio alla salma va anche il nemico per eccellenza, Giorgio Almirante. “Sono venuto a rendere omaggio a una persona onesta che credeva nei suoi ideali”, dirà. Da Gorbaciov a Zhao Ziyang, da Marchais a Carrillo, ad Arafat, dai comunisti delle Filippine e di Israele, della Jugoslavia e della Corea, Berlinguer riceve l’attestato di leader internazionale. Non manca, non può mancare, Sandro Pertini.
“Giù, accanto alla bara - scrive Mino Fuccillo - i pompieri comunisti che salutano col pugno chiuso e i corazzieri sull’attenti, i commessi della Camera dei deputati, i vigili urbani e il servizio d’ordine del partito (…) Pertini è seduto tra gli uomini al sole ma solo per lui quell’ideale e pure tangibile confine non esiste. E infatti Pertini, dopo l’ultimo discorso, scende, va verso la bara, la tocca con le mani, l’accarezza. Pertini, che quando la Iotti pubblicamente lo ringrazia, prima china il capo, poi si toglie gli occhiali, nasconde qualche lacrima e quindi saluta la folla. Pertini, che quella stessa folla ha adottato tra gli amici a tutta prova (…) Pertini, capo dello Stato, è qui a suggellare il riconoscimento di Berlinguer come uomo di questa democrazia. Pertini, uomo ferito dalla morte di un amico, è qui ad abbracciare la vedova e i figli, a ricordare la dimensione umana di quanto è accaduto”.
“Siamo tutti a venire da lontano - dirà Pajetta - Berlinguer ancora ragazzo lottò per estirpare il fascismo, per la libertà e per il pane. Sì, per il pane”.. Compagno, scriveva Mario Rigoni Stern, “deriva dal latino 'cum panis' che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. È molto più bello Compagni che 'Camerata' come si nominano coloro che frequentano stesso luogo per dormire, e anche di 'Commilitone' che sono i compagni d’arme. Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere”.
“Se asciughiamo una lacrima - diceva ancora Pajetta - è per veder chiaro. Ricordate le sue ultime parole: lavorate. Compagno Berlinguer sappiamo come vuoi essere ricordato, ce lo hai gridato a Padova, con un ultimo sforzo”.
“Lavorate sodo - aveva similmente detto nel suo ultimo discorso a Lecco Giuseppe Di Vittorio - e soprattutto lottate insieme (…) Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire”.
Lavoriamo insieme, dunque, compagne e compagni. Con la consapevolezza di servire una causa grande, una causa giusta. Con la consapevolezza di appartenere ad una grande famiglia della quale andiamo immensamente fieri.