Bidibibodibiboo, andato in scena alla Sala Umberto di Roma, porta a teatro le traversie di un giovane impiegato assunto a tempo indeterminato da una grande azienda, mentre precipita lentamente in una spirale persecutoria che trasforma in un incubo le ore trascorse sul posto di lavoro. Uno spettacolo dissacrante sulla situazione disastrosa del mondo del lavoro in Italia. Ne parliamo con il regista e autore Francesco Alberici.

Nell'epoca del posto a tempo determinato e del precariato, come mai ha scelto come protagonista un impiegato con il posto fisso?
Intanto perché oggi avere un tempo indeterminato non coincide più con quello che voleva dire un po' di anni fa, cioè l'espressione tempo indeterminato si è svuotata completamente di significato perché le aziende hanno moltissimi strumenti per licenziare anche chi ha un tempo indeterminato senza troppi problemi. Lo spettacolo racconta la storia di un lavoratore apparentemente a tempo indeterminato, formalmente a tempo indeterminato, ma che viene trattato esattamente come un precario o una partita Iva. In realtà poi la trama si basa sulla storia di due fratelli: uno lavora in azienda e ha un posto fisso, l'altro è un artista e dunque precario per definizione. Due situazioni apparentemente agli antipodi, che in realtà sono molto simili. Oggi il mercato del lavoro è spaccato in due, ma non è vera la retorica politica dei giovani che non vogliono il posto fisso. Si tratta di una narrazione che tende ad alimentare una guerra tra poveri, per non occuparsi del vero problema: il diritto del lavoro che ha fatto dei passi indietro incredibili.

Nella composizione della drammaturgia si è avvalso di testimonianze reali? Com’è cambiato il testo una volta in prova? Le storie personali degli attori hanno inciso?
La scrittura è durata all'incirca un anno, lo spunto del racconto è una vicenda vera, accaduta a una persona a me vicina, a cui si è accompagnato un confronto costante e un ampio lavoro di documentazione: libri, inchieste giornalistiche, diritto del lavoro, sociologia. Moltissime storie le ho lette sulla piattaforma Reddit, che raccoglie infinite testimonianze. In prova, io lavoro molto con l’improvvisazione, che è un modo per immaginarsi le cose insieme agli attori, a partire dal testo. Qualcosa che sia il frutto di un immaginario condiviso da tutto il cast, nato da un dialogo e dalle suggestioni di tutti.

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E tu che lavoro sei?

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Nello spettacolo si affronta il tema del malessere lavorativo, che può assumere diverse forme e può avere diverse cause. C’è la questione del mobbing. Ma c’è anche il workalcholism, ovvero una dipendenza dal lavoro che è lo stesso funzionamento del mercato a indurre.
Ib alcuni mondi aziendali - e non sono pochi - il mobbing è un problema strutturale. Non un’eccezione causata da un capo o da un gruppo di colleghi, ma una vera e propria practice aziendale che punta a “spremere al meglio il lavoratore”, creare un clima di terrore, in cui diventa difficile fare delle obiezioni, protestare o semplicemente mettere in discussione alcune cose. Si agisce sotto una pressione costante, che fa capo a un vero e proprio metodo spaventoso e pericoloso. A ciò si aggiunge il fatto che molte aziende chiedono al dipendente un legame affettivo, passionale. Non basta fare il proprio lavoro al meglio, bisogna emotivamente aderire alla mission aziendale, condividerne i valori, amare il proprio lavoro. Una sorta di ricatto che mi permetto di definire delirante. Io faccio l’artista e dunque provo su me stesso come funziona il meccanismo: il mio lavoro è la mia passione e di conseguenza devo accettare di lavorare anche tredici ore al giorno senza un corrispettivo economico adeguato. Ma questo è sbagliato, a prescindere da quanto il lavoro che fai ti piace.

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Si diventa prigionieri di un meccanismo perverso, che fa male a tutti, ma soprattutto ai più giovani. Chi si affaccia al mondo del lavoro lo fa sapendo che le aspettative verso di lui o lei sono molto alte. Parole d’ordine: essere performanti, non fallire. Il successo è l’unità di misura.
Sono molto d'accordo, anche perché viviamo in una società falsamente meritocratica. Lo sarebbe davvero se, per assurdo, gli indicatori con cui le performance individuali vengono valutate fossero quantitativi e qualitativi. Ma non se ci si basa sulla discrezionalità caratteriale e umorale: rido alle battute del mio capo? Lo assecondo, sono pronto a compiacerlo? Inoltre è chiaro che basare la propria esistenza sulle categorie di successo e fallimento è devastante, anche sul piano psicologico. Tutte queste pratiche aziendali dei premi di produttività, dei riconoscimenti davanti a tutti, non sono altro che dei contentini che si danno ai criceti perché continuino a girare nella ruota.

L’altra faccia della medaglia di questo contemporaneo malessere legato al lavoro, è il fenomeno del quiet quitting e delle grandi dimissioni, al quale il periodo della pandemia ha fatto da acceleratore.
Io ero tra coloro che nutrivano la speranza che una crisi così forte avrebbe portato a riflettere in maniera sistemica sulle criticità strutturali della società in cui viviamo, sia nell’ambito della vita personale che in quella lavorativa. Ma così non è stato. La pandemia è un gigantesco rimosso, come se nulla fosse accaduto. Sono pochi anche i libri, i film, le opere che se ne occupano. Siamo ripartiti senza considerare che tutti i problemi che si sono evidenziati durante la pandemia esistevano a prescindere. Però le conseguenze sono rimaste. I più giovani, per esempio, si rifiutano di identificarsi col proprio lavoro, ma io credo che ciò accada, più che per una questione ideologica, per una questione di sopravvivenza.

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Caro padrone mi licenzio

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Le grandi dimissioni, di cui parla Francesca Coin nel suo libro, corrispondono a una scelta tra la vita e il lavoro, tra la sopravvivenza, psicologica e fisica, e il lavoro. I giovani non sono più disposti a lavorare dieci, dodici ore per uno stipendio da fame o in nero, ad ammalarsi per questo. E se l’unica possibilità per sopravvivere al proprio lavoro è mollarlo, allora l’unica scelta è quella di andarsene per non morire. Ho conosciuto un ragazzo che lavorava in un negozio di vestiti e doveva stare in piedi tutto il giorno. Per poter andare a fare pipì doveva chiamare il suo capo e chiedergli il permesso. Non ci si può comportare da ricattatori e da schiavisti.